Gianni Oliva: «Nessuna strategia in Italia negli anni oscuri di piombo e di tritolo»
Non ci sono stati progetti di rivoluzioni da una parte e tentativi di colpo di stato dall’altra. “Gli anni di piombo e di tritolo” sono stati l’esito delle contraddizioni di un paese a due velocità che è arrivato alla fine degli anni Sessanta senza aver intrapreso un vero processo di modernizzazione. Questa l’interpretazione di Gianni Oliva, che nel suo ultimo libro sottopone a revisione la vulgata tradizionale. Oliva presenta a èStoria, domani alle 17. 30 a Palazzo De Grazia, in via Oberdan 15 a Gorizia, il suo libro “Anni di piombo e di tritolo” (Mondadori, pagg. 408, 24 euro). Un’occasione per ripercorrere la stagione degli attentati a mano armata del terrorismo rosso e nero, ricostruita in un racconto articolato e drammatico.
Nel suo libro lei rigetta l’etichetta di strategia della tensione riferita agli atti terroristici compiuti tra la strage di piazza Fontana e la bomba alla stazione di Bologna. Come mai?
«Perché – risponde Gianni Oliva – quella teoria sottintende una programmazione pianificata dall’alto, ma né per il terrorismo nero né per quello rosso ci sono prove che furono eterodiretti. Sono stati piuttosto fenomeni nati da frange estremiste convinte che bisognasse alzare il livello dello scontro per destabilizzare o, a seconda se gli attori erano di destra o di sinistra, stabilizzare il sistema. Ma non sono avvenute all’interno di una strategia di lungo termine. È sbagliato immaginare che queste persone si siano raccolte intorno a un progetto. Sono a mio avviso forze che hanno agito a livello più o meno autonomo e hanno creato una situazione di tensione, ma che non hanno progettato una strategia».
Però per piazza Fontana si è usata l’espressione strage di Stato, come dietro ci fosse un disegno ben preciso.
«Se fosse stata davvero una strage di stato bisognerebbe incriminare chi l’ha fatta non solo per attentato alla Costituzione ma anche per incapacità professionale. Perché dopo l’attentato non si sono visti reparti militari occupare palazzo Chigi né qualche parlamentare presentare leggi speciali. Non c’è stato insomma un progetto di colpo di Stato legato a quel fenomeno. Si è trattato di gruppi di destra, anche consistenti, che si sono giovati di complicità all’interno dei servizi segreti o di settori dello Stato, ma non possiamo parlare di strategia».
Veniamo al caso Moro, il nodo mai sciolto della storia repubblicana.
«Moro stava portando al governo il partito comunista, pensando di legittimare le forze di opposizione e perciò era ritenuto pericoloso dagli americani, come Kissinger e Nixon, che gli erano ostili; inoltre era inviso a una parte del mondo conservatore italiano, che temeva l’Italia andasse a sinistra e per di più aveva anche qualche avversario interno al partito. Insomma, interessava a molti che lui sparisse, ma altra cosa è pensare che sia stata la Cia a organizzare il rapimento. Sono state le Brigate Rosse, il mistero è come hanno fatto a tenere nascosto per quasi due mesi Moro in una Roma setacciata dalla polizia».
Riusciremo mai a conoscere la verità?
«I fatti in sé, mi riferisco a piazza Fontana come al rapimento di Moro, sono stati esaminati e appurati dalla magistratura. Quello che crea dubbi è la gestione di quei fatti. Faccio due esempi. La seduta spiritica cui aveva partecipato Prodi e dalla quale sarebbe emerso il nome della via dove si trovava la prigione di Moro. È chiaro che si trattava di coprire un informatore, ma perché dopo quarant’anni Prodi non ha ancora detto chi era quell’informatore? Altro esempio. Craxi arrivò in 48 ore a stabilire un contatto con i brigatisti Morucci e Faranda, ma non ci arrivarono i carabinieri. È chiaro che qualcuno ha fatto in modo che il rapimento Moro finisse in quel modo».
Quest’anno dalle tracce dei temi di maturità è scomparsa quella di storia. L’insegnamento della storia è in crisi solo per una mancanza di visione in chi fa i programmi o c’è un disegno che porta a ridurne l’importanza?
«È difficile trovare uomini politici che abbiano coraggio. Se oggi un ministro proponesse di abolire lo studio della storia antica per concentrarsi su quella moderna e contemporanea come in Francia o negli Stati Uniti, avrebbe di fronte una insurrezione di antichisti, da Luciano Canfora in avanti. Non c’è una classe dirigente che sappia affrontare i problemi e quindi si ha solo una conservazione dell’esistente. E poi oggi c’è un atteggiamento culturale totalmente proiettato sul presente che non riflette su quello che è avvenuto ieri, e questo penalizza la storia».
Però c’è interesse intorno alla storia, lo dimostrano le tante rassegne, come quella di Gorizia e le trasmissioni tv.
«Negli anni Settanta/Ottanta la storia era una materia importante, poi è andata morendo. Oggi ci sono avvisaglie di interessi nuovi. Il festival di Gorizia è molto cresciuto da quando ci sono stato la prima volta, mi pare nel 2006. Un problema da superare è il limite di offerta di libri di divulgazione. Da noi i libri di storia sono analisi accademiche di ciò che è accaduto, bisogna invece raccontare i fatti, e attraverso il loro racconto proporre una interpretazione. Ho scritto questo libro proprio perché ci sono tanti libri sul terrorismo, ma non ce n’era uno che ne parlasse nel suo insieme. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo