Giannino Marchig custode dello spirito mitteleuropeo in mezzo alle avanguardie

Vittorio Sgarbi firma il secondo volume sull’arte del ’900 percorso ricco di immagini da Lucio Fontana a Piero Guccione
********: Marchig, Giannino (1897-1983). Reclining Nude; Nu Couche.. London, Private Coll.*** Permission for usage must be provided in writing from Scala.
********: Marchig, Giannino (1897-1983). Reclining Nude; Nu Couche.. London, Private Coll.*** Permission for usage must be provided in writing from Scala.

L’anticipazione

Per gentile concessione della casa editrice La Nave di Teseo pubblichiamo il capitolo sul pittore triestino Giannino Marchig tratto dal secondo e ultimo volume della serie “I Tesori d’Italia”: “Novecento. Da Lucio Fontana a Piero Guccione” di Vittorio Sgarbi, da oggi in libreria (pagg. 378, euro 27,00).



VITTORIO SGARBI

Giannino Marchig, oggi dimenticato, è stato un artista familiare più ai mercanti d’arte che ai pittori, soprattutto ai grandi maestri triestini di cui fu amico e coetaneo. Aveva iniziato da allievo di un valoroso accademico come Giovanni Zangrando, e, ammiccando a Gino Parin, Bruno Croatto e Argio Orell, negli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Aveva avuto la sensibilità per capire l’arte moderna e i suoi veloci passaggi, ma amava soprattutto l’arte antica. «Provava una sorta di comunione intima con i maggiori rappresentanti dell’arte italiana, si sentiva eletto quando scopriva per primo, casualmente (come nel caso di un dipinto di Bellini!), le impronte digitali che i secoli avevano nascoste ad altri, non a lui: esse gli appartenevano e si appropriava mentalmente, intimamente, solennemente del miracoloso segno sulla tela che diventava una reliquia» (Walter Abrami).

La sua città ideale fu Firenze, dove studiò all’Accademia, e a Firenze incontrò il grande triestino classico Carlo Sbisà: entrambi alloggiavano presso la famiglia Vermehren, valorosi restauratori, dai quali Marchig apprese il mestiere.

Tra il 1925 e il 1939 ebbe studio in una chiesa sconsacrata sul lungarno Guicciardini. Partecipò alle Biennali del 1926, 1928, 1930 e 1932. A partire dal 1935 entrò in rapporto con Bernard Berenson e frequentò la Villa ai Tatti, studiando i quadri del grande conoscitore. Vide innumerevoli opere, incontrò persone, e si allontanò dalla pittura per applicarsi al restauro, in cui si dice che fosse insuperabile.

Durante la seconda guerra mondiale, aiutò Berenson a proteggere i libri e la collezione. Furono stretti anche i suoi rapporti con l’altro grande critico, nemico di Berenson, Roberto Longhi. Il suo pittore ideale fu Tiziano, e Bellini uno dei suoi maestri spirituali.

Intensificò le sue peregrinazioni: fu in Svezia, Danimarca e Svizzera; nel 1949, in un rientro in Italia, conobbe Jeanne, pittrice, restauratrice e studiosa d’arte che divenne la sua compagna, e fu mia amica. Alla fine degli anni quaranta decisero di stabilirsi in Svizzera, in un centro internazionale libero da ostacoli doganali; vissero prima a Lucerna, poi nell’animata Losanna, e infine a Ginevra.

Quasi dimenticato come pittore, fu un vero professionista del restauro. Negli anni cinquanta ebbero inizio i soggiorni di Marchig e di Jeanne in America settentrionale; nel 1953 si fermarono tre mesi a lavorare per il Metropolitan Museum of Art e assieme restaurarono un pannello di Hubert van Eyck. Nei mesi trascorsi oltreoceano, Giannino e Jeanne visitarono i musei più celebri della costa atlantica: oltre che a New York furono a Washington, Boston, Filadelfia, Baltimora, Chicago. Nel 1969, su insistenza della compagna, Giannino riprese la pittura e tornò ad affrontare i soggetti amati, senza dimenticare la casa dei genitori in Carso e altri ricordi sfocati e indistinti di Trieste. Morì nel 1983.

Ritrovai un suo dipinto, Le due ragazze, firmato e datato 1918, un olio su tela (100×80 cm). Indica l’intelligenza formale e la forza espressiva di un pittore che, nella deflagrazione delle avanguardie e negli anni della Metafisica, mantenne, come altri triestini, un’autonomia e un’attualità di perfetto spirito mitteleuropeo, in equilibrio tra Felice Casorati ed Egon Schiele, con tutta la forza riottosa della ragazza seduta, malvolentieri in posa, e di quella in piedi, persa nei suoi pensieri malinconici e romantici. Una pittura sentimentale e psicologica, in parallelo con La coscienza di Zeno di Italo Svevo.

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