Gino Paoli: «Il manicomio l’ho nel cuore»
Il cantante domani al “Bobbio” con il pianista Danilo Rea in “Due come noi che”

Roma, Auditorium Parco della Musica 26 12 2011 Gino Paoli e Danilo Rea 'Due come noi che…' © Musacchio & Ianniello ******************************************************* NB la presente foto puo' essere utilizzata esclusivamente per l'avvenimento in oggetto o per pubblicazioni riguardanti la Fondazione Musica per Roma *******************************************************
Domani alle 20.30 il Teatro Bobbio propone «Due come noi che…», concerto con Gino Paoli e il grande pianista Danilo Rea.
«La collaborazione è frutto di un incontro di quelli che capitano raramente», dice Paoli. «Ci capiamo al volo senza bisogno di parlare. Io canto come se suonassi e lui suona come se cantasse. Una grande armonia forse dovuta al fatto che abbiamo una sensibilità simile. Ormai siamo una “coppia di fatto” della musica e, dopo “Due come noi che…” e “Napoli con amore”, a settembre abbiamo pubblicato l’ultima fatica in duo: “3”, dedicata ai capolavori della musica francese».
Che spettacolo si vedrà al Bobbio? «Non c’è una scaletta predefinita - prosegue Paoli - perché con Danilo suoniamo in piena libertà, sull’onda dell’emozione del momento. La gente viene ai nostri concerti per ricevere emozioni. Quindi ogni volta che andiamo in scena cerchiamo di gettare un ponte tra noi e il pubblico. E quando riusciamo a stabilire questo contatto di emozioni è un’esperienza unica, che ti arricchisce incredibilmente». In scaletta non mancano i classici come “Il cielo in una stanza”. Per il pubblico che conosce solo le hit di un artista, Paoli non prova alcun fastidio: «Anche perché nei concerti c’è sempre l’occasione di far ascoltare tutto. L’importante è che si cerchi di scrivere canzoni che siano tutte allo stesso livello. Poi il successo di un brano è fatto per il 20% dal talento e per il resto di fortuna. Se rincorri il successo lui scappa. Quando pubblicai “La Gatta” vendette pochissime copie, la fortuna di quella canzone sono stati i juke-box».
Gino Paoli è nato a Monfalcone. E racconta: «Sono andato via che ero molto piccolo, ma ne conservo le radici: in casa mia, anche a Genova, si parlava “bisiacco” nonostante mio padre avesse deciso che si sarebbe parlato il toscano perché quella era la lingua “italiana”. In realtà dopo pochi mesi parlava veneto anche lui. Credo che sia una prerogativa della gente di confine, quella di avere una propensione per le lingue».
A Trieste, invece, lo legano un’esperienza speciale e un grande amico. «Una città bellissima, mitteleuropea, forse perché è stata a lungo una zona franca. I ricordi più belli che ho sono legati a Basaglia: non l’ho mai conosciuto ma ho avuto modo di collaborare con il suo braccio destro, Dell’Acqua, che ancora oggi è uno dei miei più cari amici. La prima volta ho suonato al manicomio di Trieste, sono tornato quando ha chiuso e mi è rimasto nel cuore. Penso che il loro lavoro sia stato, e sia ancora oggi seriamente importante: il merito di Basaglia è stato quello di far capire che i pazienti sono prima di tutto persone e per questo vanno trattati con dignità. A Trieste è successo qualcosa di positivo, purtroppo altrove non è andata altrettanto bene, visto che la legge non è stata supportata da finanziamenti o dall’apertura di centri appositi».
Trieste, Genova, Livorno… la storia di Paoli è costellata da città di mare: «Il mare nella mia vita è fondamentale, basti pensare che i miei genitori si sono conosciuti al circolo ufficiali, mio padre era sempre nei cantieri navali in allestimento perché era in servizio sui sommergibili. Se non ci fosse stato il mare io non sarei qui».
Muse ispiratrici delle sue canzoni le donne. E della cronaca di queste ore commenta: «Le donne devono essere trattate con dignità, ma questo vale per ogni essere umano, al di là del genere. Il rispetto è il minimo che un uomo possa fare all’interno di una comunità, anche se oggi va poco di moda. Ma resto perplesso quando si scatena una sorta di “caccia alle streghe”, quando ci vanno di mezzo tutti, perché si corre il rischio di banalizzare la realtà e di sminuirla». Conclude con uno sguardo al futuro: «L’impegno principale è quello di finire di scrivere quello che sto scrivendo, e che poi venga ascoltato. L’inquietudine, o la malinconia, con cui convivo sono una chance: una tensione che ti porta a fare e che ti spinge. Altrimenti sarei fermo».
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