Giovanni Radossi: «Ci sono stati periodi difficili ma gli studi hanno prevalso»

l’intervista
Ottantadue anni portati con leggerezza, Giovanni Radossi è l’anima e l’instancabile guida del Centro di ricerche storiche di Rovigno. Dopo cinquant’anni di appassionato lavoro, Radossi sta per andare in pensione, ma c’è da scommettere che sarebbe pronto a ricominciare.
Perché, pur essendo italiano, è rimasto nella Jugoslavia di Tito?
«Avevo 12 anni. La famiglia di mio padre, che era contadino - risponde Radossi -, se ne andò, mentre la famiglia di mia madre rimase. E mio padre scelse di restare con lei».
Cosa trattenne nelle terre cedute alla Jugoslavia tanti italiani?
«Ad alcuni fu semplicemente rifiutata l’opzione, altri erano troppo vecchi o troppo legati alla terra, altri ancora, in verità una minoranza, sposò la causa socialista».
Quanti erano?
«Posso dire che nei primi anni Settanta, tra Fiume e l’Istria c’erano 450 attivisti italiani iscritti al partito comunista».
Ha fatto carriera?
«Tra il 1961 e il 1967 sono stato impegnato in politica. Ma già allora ero una voce dissidente».
E poi?
«Rimasi a casa un anno e mezzo per malattia, tubercolosi polmonare. Fu in quella circostanza che mi resi conto che noi italiani non contavamo nulla; noi eravamo gli “onesti italiani” solo a seconda della convenienza. Con noi il regime usava il bastone e la carota, bravi finché eravamo la dimostrazione che il regime sapeva essere pluralista, ma guai ad alzare la voce. Allora abbandonai la politica attiva e cominciai a lavorare contro la de-italianizzazione in atto».
Credeva nell’idea socialista?
«Non conoscevamo alternativa. Ma poi mi resi conto che l’ideologia modificava tutto in funzione del regime, una falsificazione continua».
Da qui l’idea di fondare un centro per salvaguardare le radici della cultura italiana.
«Quando presentammo la prima pubblicazione degli Atti, il Glas Istre (quotidiano croato di Pola, ndr) titolò a tutta pagina “Testi anticroati del compagno Radossi”. Seguì una polemica durissima, fatta anche di intimidazioni. Si andava in galera per molto meno».
Come è riuscito a evitare la prigione?
«Non gli conveniva, avrebbero fatto di me un martire. E poi sin dall’inizio coinvolgemmo nella nostra attività di ricerca eminenti studiosi croati. Si lavorava sul piano scientifico e culturale al di là di ogni ideologia, questa è sempre stata la nostra vera forza».
Riassumendo: come centro di ricerche davate fastidio al governo comunista, eravate osteggiati dai nazionalisti croati e per una larga fetta degli esuli eravate dei traditori.
«Sì, di qua individualisti e fascisti, di là traditori».
Ma i fondi non sono mai mancati.
«Finché c’era la Jugoslavia non potevamo prendere fondi direttamente dall’Italia, tutto passava attraverso l’Università popolare di Trieste, e avevamo una percentuale garantita dai fondi per l’Unione degli italiani. Da allora l’Upt diventa la nostra ancora di salvezza, ci sentivamo le spalle coperte. Ma gli inizi non sono stati facili. Poi è arrivato il trattato di Osimo, e le cose per noi migliorarono, senza dubbio».
Ma davate sempre fastidio.
«Fino ai primi anni Ottanta hanno cercato in tutti i modi di intimidirci o di farci sparire convogliando il Centro in altri enti nazionali. Borme venne espulso dal partito, Virgilio Giuricin, il fotografo del Centro, si fece un anno e mezzo di galera per spionaggio. Ma non abbiamo mollato».
Il conflitto serbo-croato come ha influito sul centro?
«La guerra patriottica? L’Istria è rimasta lontana dal fronte, perché così conveniva a tutti, e il primo effetto è che la comunità italiana è passata di colpo da diecimila a 30 mila unità. E poi la Dieta democratica istriana è diventata il vessillo delle nostre istanze, Borme è stato riabilitato, nel ’95 è stato approvato il trattato italo-croato sulle minoranze. Ora possiamo pensare meglio ai nostri progetti scientifici e di ricerca». P.S.
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