Giulia Iacolutti e le trans nel carcere “Casa Azul” costrette a vestirsi di blu

Il percorso
«Per me l’arte è politica, non decoro. Tratto queste tematiche in forma artistica, ma con lo scopo che chi guarda i miei lavori, si faccia ulteriori domande e riflessioni. Non è mia intenzione dare risposte».
Da queste premesse si sviluppa il lavoro Giulia Iacolutti, fotografa documentarista e artista visiva che venerdì, alle 19.30, allo “studiofaganel” di Gorizia e in collaborazione con "Premio Sergio Amidei", inaugura “Casa Azul”, mostra fotografica nata da un'indagine socio-visiva sulle vite di cinque donne transessuali imprigionate in uno dei penitenziari maschili di Città del Messico.
Nata a Cattolica nel 1985, ma residente a Udine, Giulia Iacolutti, dopo la laurea in Economia dell’Arte all'Università Ca' Foscari di Venezia, ha studiato fotografia e video all’Accademia del Teatro alla Scala di Milano. Nel 2014 vince un bando europeo e si trasferisce in Messico, dove si diploma in Foto Narrativa e Nuovi Media alla Fondazione Pedro Meyer con una borsa di studio del World Press Photo. Le è stato appena conferito dal Craf (Centro di Ricerca e Archiviazione della Fotografia di Spilimbergo) il Premio Friuli Venezia Giulia Fotografia 2019 per “Jannah. Il Giardino Islamico del Chiapas”, un percorso che testimonia il tempo vissuto a stretto contatto con una piccola comunità isolata del Messico, dove la dottrina musulmana e le tradizioni indigene hanno trovato una forma di armonica convivenza.
Il progetto di “Casa Azul” nasce invece nel 2015 su idea di Chloé Costant, sociologa di Città del Messico specializzata in questioni carcerarie e di genere, che ha coinvolto Giulia Iacolutti in questa ricerca sulla transessualità all’interno del carcere.
«Abbiamo aspettato un anno per i permessi, siamo riuscite a entrare organizzando un corso di scrittura e fotografia per un totale di dieci mattine. Volevamo realizzare i ritratti contestualizzandoli all’interno nel carcere, ma non è stato possibile, ci hanno concesso solo una stanza bianca, vietato ogni diffusione di immagine. All’inizio ci avevano proibito di ritrarre anche i volti, ma le detenute hanno firmato una liberatoria e così abbiamo potuto fotografare i loro visi», racconta Iacolutti che si occupa di temi politici e socioculturali relazionati alle lotte di resistenza identitaria.
L’anima di questo progetto consiste nel raccontare, attraverso un parallelismo con le scienze biologiche, la lotta affrontata quotidianamente da queste persone, le difficoltà nella costruzione della loro identità, ostacolate in ogni gesto, dall’obbligo di indossare abiti maschili come tutti i detenuti del penitenziario, al divieto di possedere oggetti femminili, proibizione che cade nel momento stesso in cui si attua la pratica della corruzione e si riesce così a ottenere qualche oggetto che diventa strumento di resistenza identitaria contro un ambiente che impone loro la mascolinità.
Il titolo si riferisce al soprannome del carcere, la “Casa Azzurra”, dovuto all’obbligo, per i detenuti, di vestirsi d’azzurro. Per questo motivo le fotografie sono state stampate in copia unica, in cianotipia, antico metodo di stampa fotografica caratterizzato dal colore blu di Prussia.
Un manuale di biologia degli anni '90, trovato in un'aula della prigione, ha poi innescato un parallelismo con le scienze biologiche che riconoscono la cellula come l'unità base della vita. La procedura generale di colorazione con ematossilina ed eosina usata in istologia rende i campioni di tessuto di colore rosa; così, accanto alle fotografie “blu di Prussia” sono state abbinate delle fotografie al microscopio di cellule prostatiche sane trattate in rosa. Se il blu evoca l’apparenza e l’identità imposta, il rosa si riferisce all'interiorità, all'essere e all'autodeterminazione.
“Casa Azul” è anche un fotolibro, il primo per Giulia Iacolutti, edizione italo-francese a cura di studiofaganel editore e TheM éditions. —
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