Gli 80 anni di Pilat, mito della canzone

TRIESTE. La medaglia bronzea alla carriera, che gli sarà conferita domani dal sindaco, è un riconoscimento importante per il segno indelebile che Lorenzo Pilat ha impresso sulla musica folcloristica e sulla cultura cittadina. Gli ottant’anni che compie oggi sono stati pieni di successi ben fuori dai confini locali: membro del Clan di Celentano, vincitore del Festivalbar, a Sanremo come cantante e autore di decine di hit (“Fin che la barca va” interpretata da Orietta Berti, “Nessuno mi può giudicare” da Caterina Caselli, “La Rosa Nera” da Gigliola Cinquetti); la sua “Alla fine della strada” viene ripresa da Tom Jones e vince un Grammy.
Col nome d’arte Pilade ha fatto parte dei grandi della musica italiana ma a Roma e Milano ha preferito senza esitazioni la sua “Trieste piena de mar”: «Il Clan non era di certo una riunione di amici – ricorda Pilat –, a Milano c’era spazio solo per il lavoro. Passare da Trieste, dove vivevo in modo modesto, Al mondo della discografia nazionale è stato un salto troppo grande. Non ero preparato per il successo, avevo le carte buone ma sentivo la voglia di tornare alla vita di prima, con i veri amici. Nel ‘72 ho realizzato uno spettacolo per la Rai tv, da Duino dovevo cantare un brano popolare, allora chiamai un coro di Asiago, facemmo “No la me vol più ben” e andò benissimo. Il discografico e editore delle Messaggerie Musicali, Ladislao Sugar (papà del marito della Caselli, Piero) mi disse: “Ma perché non fa un disco con quelle canzoni? È una cosa simpatica!”. Il giorno dopo ero in sala d’incisione. Ho radunato due complessi triestini che erano a Milano, li ho fatti prima mangiare e soprattutto bere: l’allegria non mancava. Così nel 1973 esce per la Cbs il mio primo disco “Trieste Matta”, distribuito dalla Sugar a livello nazionale. Solo a Trieste ha venduto 150 mila copie. Il direttore artistico della casa discografica propose il titolo, dicendomi che secondo lui i triestini sono tutti un po’ matti: “più che matti semo gente allegra”, dicevo».
Un grande amore per la sua città.
«Trieste a volte si adagia sul quieto vivere, manca di spirito di iniziativa, ma è unica. Qui sono nato. Eravamo così poveri che mia mamma mangiava col piatto sulle ginocchia perché non c’era abbastanza posto sul tavolo in una cucina di tre metri quadri. Alla vigilia di Natale a Ponterosso ci regalavano un albero senza fronde e i rami tagliati che avanzavano, mio papà faceva un buco sul tronco e li attaccava con il filo di ferro: insomma ci ingegnavamo. Tutto spartano, senza luci».
Tempi diversi che si riflettevano nelle canzoni?
«Si cantava e si suonava di più. Oggi c’è solo il telefonino, si comunica meno. C’era più verità, anche nei pezzi che si portavano a Sanremo».
Nel mondo dello spettacolo conobbe qualche anima bella?
«Il regista Pietro Germi, rispettabile, brava persona, equilibrato, uomo vero. Meticoloso: rifece 12 volte una scena con Celentano. O ricordo una cena da Tognazzi a Roma, aveva cucinato lui, da morir dal ridere, simpaticissimo».
E nel 1965 incontrò perfino i Beatles a Milano.
«C’era una folla accalcata fuori dall’hotel. Sono entrato spedito: alla reception hanno pensato fossi un cliente. Non ho esitato, ho preso le scale. Arrivo al primo piano e vedo i Beatles che escono dalla stanza. Sto per entrare in ascensore con loro ma è pieno, Lennon si scusa. Corro giù per le scale, li raggiungo e mi confondo con i giornalisti. Finisco in tutte le foto, mi faccio fare gli autografi, mi mancava solo quello di Ringo. Allora li seguo ancora, sul terrazzo. Solo a quel punto Leo Wätcher, organizzatore delle date italiane, mi fa: “Ma lei chi è?”. Mi cacciano in malo modo. Di sera vado al concerto con Celentano e la Mori, Santercole, Miki Del Prete. Siamo in fila, Wätcher mi vede e urla “quello non entra neanche con il biglietto!”. Ho fatto un giro e ovviamente sono riuscito a intrufolarmi».
Temerario.
«Lo sono anche adesso. È quello che mi tiene in vita. Non ho paura di niente e di nessuno».
Nulla la spaventa?
«Solo la morte».
Paura di soffrire?
«No, mi devasta proprio l’idea di non stare più al mondo. L’umanità dovrebbe debellare le malattie, vivere più a lungo possibile e finirla con le guerre, perché c’è posto per tutti».
In cosa trova consolazione?
«Pensare che quando non ci sarò più ci saranno le mie canzoni: ho fatto qualcosa di duraturo, eterno». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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