Gli anni bui di Oscar Wilde

In “The Happy Prince, l’ultimo ritratto” li esplora un grande Rupert Everett

Ne era rimasto conquistato sin dagli albori della carriera. L'aveva amato e studiato, poi, da attore, interpretato a teatro più volte. Era da una decina d'anni che Rupert Everett coltivava il sogno di realizzare un film sul geniale drammaturgo e scrittore Oscar Wilde, e da circa la metà si era messo a lavorare seriamente sul progetto iniziando a stenderne la sceneggiatura. A rafforzare il “cambio di passo” ci fu soprattutto una commedia messa in scena a Londra, “The Judas Kiss” di David Hare, che ritraeva due momenti critici nella vita del grande irlandese, nei cui panni figurava Everett stesso. Su quel palcoscenico ricevette critiche entusiaste, con il Guardian a gridare come fosse quella “LA” performance di un'intera carriera. Tutto ciò per dire che, per il suo debutto da sceneggiatore e regista, “The Happy Prince. L'ultimo ritratto di Oscar Wilde” non poteva che rappresentare la scelta più naturale cui l'attore inglese potesse approdare.

Un “absolute beginner” per modo di dire, quindi, con in mano una materia che riesce a plasmare brillantemente come se già gli appartenesse dalla notte dei tempi. Così, uno dei pregi più evidenti di “The Happy Prince”, che fa riferimento a un racconto “morale” per bambini originariamente scritto dall'autore dublinese per i figlioletti, è, dal punto di vista drammaturgico, quello di andare a raccontare una porzione scarsamente conosciuta e piuttosto inedita della sua vita: gli anni amari della caduta in disgrazia dopo la condanna e la detenzione a Reading. Anni ignorati, sino a questo momento, dalla cinematografia, che si è quasi sempre arrestata al momento del processo o dell'incarcerazione (eccezion fatta per “Wilde” di Brian Gilbert, che si chiudeva con il protagonista interpretato da Stephen Fry che raggiungeva Jude Law- Bosie a Napoli).

Gli ultimi tre anni di vita invece, quelli su cui si concentra Everett, sono anni dolenti e durissimi in cui lo scrittore, da osannato e acclamato dalla società inglese, viene precipitato improvvisamente dall'altare alla polvere, schiacciato dal puritanesimo ipocrita di un sistema violento e repressivo. Povero in canna, costretto a spillare sterline agli amici, e comunque già minato da un innato spirito di autodistruzione, il Wilde di Everett si dibatte, in un'ambientazione magnifica e variegata che caratterizza l'intera narrazione, tra l'odore stagnante di sudore e alcol delle bettole parigine, i vicoli brumosi, le stanze decrepite in cui, nonostante tutto, continua a rivendicare i suoi “momenti purpurei”, come chiama il giacere con aitanti giovanotti. I ricordi del suo passato pian piano riaffioreranno, trasportandolo in altre epoche e in altri luoghi. È in questo contesto che si compie il miracolo della mimesi fisica messa in atto da Everett, non solo, quindi, scrittore acuto e regista raffinato e misurato. Una trasformazione/reincarnazione che restituisce un Wilde possente, magnetico e carismatico, nonostante il fisico bolso e una stazza che gli impedisce i movimenti, il volto sfatto, la bocca che si storce e si deforma. «Non c'è più niente in me, neanche la paura» esclamerà a un certo punto, svuotato, tra l'incredulità degli amici che l'hanno visto per la prima volta violento, sia pure in reazione a provocazione e dileggio. Eppure, nella visione di Everett, nonostante gli stenti economici e fisici, non sarà mai un uomo completamente vinto, ma continuerà a suscitare intorno a sé la magia, persino nelle profondità dei bassifondi.

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