Gli studenti di Oxford provarono con la scienza a liberare una posseduta

John Pogue firma un horror di classe e inquietante effetti speciali e buone idee nella sceneggiatura di Sam Raimi
Di Cristina Borsatti

Università di Oxford, 1974. Qui, il professor Joseph Coupland inizia un esperimento molto particolare. Lo aiutano due suoi studenti, oltre al giovane Brian, che patito di riprese cinematografiche è incaricato di filmare tutto. Oggetto dell’esperimento è Jane, una ragazza con manie suicide cui è stata diagnosticata la schizofrenia, ma che crede invece di essere posseduta da una presenza che chiama Evey. L’Università taglia i fondi a Coupland per la scarsa ortodossia del suo esperimento, ma il professore e i suoi studenti non si fermeranno per questo… Che sia tratto da fatti realmente accaduti (è ispirato al “The Philip Experiment” di Toronto del 1972) fa de “Le origini del male” un film estremamente inquietante, che si tratti di un horror estivo di buona qualità ne fa un caso raro.

Dietro la macchina da presa si cela John Pogue (già regista di “Nave fantasma” e “Quarantena2”), alle prese con un reale esperimento condotto quarant’anni fa da un manipolo di ragazzi appassionati di scienza, e trascinati in qualcosa di più grande di loro da un visionario insegnante universitario. La sua nuova pellicola ha terrorizzato gli Stati Uniti d’America, e ora si appresta a farlo anche da noi, strizzando l’occhio al recente filone dei found footage movies: le riprese spuntano fuori quarant'anni dopo per farci finalmente scoprire cosa videro. Produce la gloriosa Hammer, responsabile dei film di Peter Cushing, Terence Fisher e Christopher Lee.

I tempi cambiano, questo è certo, ma qualche elemento di continuità non manca, a partire dalle sinistre atmosfere e dal genere di appartenenza. “The Quiet Ones” (titolo originale), distribuito in Italia dalla Lucky Red, alterna realtà e finzione, grazie all’inserimento di quelle che nel film sono le riprese di Brian, suscitando in chi guarda la sensazione di assistere alle stesse in prima persona. In questo modo, John Pogue riesce nell’ambizioso obiettivo di tenere sempre incollato lo spettatore, merito anche delle atmosfere sopracitate, angoscianti, e di un talentuoso cast che il regista dirige ottimamente. Su tutti, spicca Jared Harris (figlio di Richard Harris), il Professor Couplan, un’interpretazione sopra la media la sua, che mette in scena una spettacolare evoluzione del suo personaggio. Jane Harper è Olivia Cooke, capace di centrare il bersaglio in un ruolo non certo facile. Le altre sono parti minori, compresa quella di Sam Claftin, che qui interpreta il giovane cineoperatore Brian McNeil. Non semplice riuscire a stare a galla nell’oceano grande degli horror, spesso pellicole mediocri o tentativi non riusciti di remake di ottimi originali, eppure “Le origini del male” ci riesce con un paio di effetti speciali e con una buona idea in sceneggiatura. Forse una ricetta, ne siamo certi, che va inoltre a mescolare razionalità e ossessione, come nei migliori classici del genere. Quelli incentrati sulla possessione demoniaca, ovviamente, da “L’esorcista” di William Friedkin a “Drag Me To Hell” di Sam Raimi. Sceneggiatore di un certo livello (suoi il remake di “Rollerball”, “The Skulls” e altri ancora), John Pogue realizza uno script piuttosto tradizionale, capace in ogni parte della trama di trascinare lo spettatore passo passo dentro l’incubo. Non abusa del found footage, lo sfrutta a tratti, inserendo all’improvviso inserti in bianco e nero che fanno davvero paura. Solo una parte del film racconta la storia attraverso l’occhio della macchina da presa, con filmati stile vintage che si alternano alle normali riprese. Filmati girati con lo stile tipico degli anni Sessanta e Settanta, immagini intense, profonde e sature realizzate dal bravo direttore della fotografia Matyas Erdely.

Il crescendo di tensione è studiato sapientemente, anche l’ambientazione è azzeccata (una vecchia casa isolata inglese con tanto di stanza chiusa al suo interno) e Pogue gioca abilmente con la sua macchina da presa, svelando un po’ alla volta, tenendoci incollati e terrorizzati per quasi cento minuti.

I registri messi in scena sono diversi, i dialoghi mai banali (altra cosa rara), i personaggi complessi, i ritmi serratissimi e il fil rouge sentimentale non guasta.

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