Godard “pop”, insopportabile
Il film del franco-lituano Hazanavicius banalizza il personaggio e il contesto storico

Jean-Luc Godard, maestro della Nouvelle Vague, artista geniale e uomo controverso, visto attraverso lo sguardo del regista franco-lituano Michel Hazanavicius. Godard, il cineasta che assieme ai sodali Truffaut, Chabrol, Rivette, Rohmer, ha cambiato per sempre i connotati della settima arte, colui che ha rivoluzionato l’idea stessa di cinema politico («non fare film politici, ma fare politicamente film»), autore di capolavori poi rinnegati come “Fino all’ultimo respiro”, “Il disprezzo”, “Bande à part”, “Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville”, problematico, audace, libero, estremo, raccontato da Hazanavicius, ossia, per capirci, il regista del già sopravvalutato “The Artist” e dell’inguardabile “The Search”. Una lotta ad armi impari, due approcci al cinema che più distanti e antitetici non potrebbero essere.
“Il mio Godard”, in concorso all’ultimo Cannes, è la versione italiana del titolo originale “Le Redoutable”. Laddove “mio”, in teoria, non si riferisce al punto di vista di Hazanavicius, ma a quello di Anne Wiazemsky, legata artisticamente e sentimentalmente al regista franco-svizzero, della cui unione racconta nei memoriali “Un an après” e "Une année studieuse", fonte di ispirazione per il film. Non è un biopic (né un film sul cinema, purtroppo) ma una storia d’amore, ha sempre insistito nel precisare Hazanavicius, che della vita e la carriera di Godard sceglie di mettere in scena un momento preciso, coincidente con una svolta decisiva sia in ambito personale, che artistico e soprattutto politico.
È il 1967, ovviamente a Parigi. Godard è all’apice della fama quando gira “La cinese” con la giovane Wiazemsky. I due si amano e si sposano. Ma l’accoglienza disastrosa al film, le reazioni negative sia del pubblico che della critica, sono la scintilla per una profonda trasformazione nella visione del cineasta, al contrario di Hazanavicius già poco incline all’accondiscendenza.
Il Sessantotto, coi suoi tumulti, bussa alle porte e la posizione ideologico/estetica di Godard si estremizza in maniera radicale e irreversibile: rinnega il passato, si allontana dagli amici, rifiuta il consenso, trasforma la sua stessa idea di cinema in atto di militanza mai conciliante, sempre più lontano dal gusto comune e spesso inaccessibile.
Senza accantonare completamente la dimensione drammatica della vicenda, che fa capolino nella seconda parte del film, Hazanavicius, privilegia soprattutto il tono della commedia. Procede quindi a disegnare una caricatura di Godard (ma ce n’è anche per Bertolucci e Ferreri), megalomane e maldestro come un Clouseau, vittima di reiterate gag, quasi sempre ridicolo nel manifestare un’intransigenza apparentemente velleitaria. E se per un po’ questo Godard in chiave Peter Sellers (nonostante l’ottimo Louis Garrel) può risultare vagamente divertente, alla lunga irrita perché superficiale più che convintamente iconoclasta.
A rendere insopportabile “Il mio Godard”, infatti, non è tanto l’azzardo nell’aver osato toccare un “mostro sacro” (peraltro spesso indifendibile fuori dal set), quanto piuttosto l’aver sistematicamente banalizzato, svuotato di senso, minimizzato se non addirittura deriso, una materia complessa - dalla figura dell’artista, fino al contesto storico, sociale, culturale e politico dell’epoca - che avrebbe meritato tutt’altro trattamento. Come in “The Artist”, Hazanavicius ricalca stilemi a vuoto. Qui gioca con i capitoli e i titoli a tutto schermo, i colori e le inquadrature de “La cinese”, il nudo di Stacy Martin (la Wiazemsky) come la Bardot de “Il disprezzo”, il bianco e nero di “Une femme marriée”. Confeziona un oggetto “pop” ammiccante, salottiero, programmaticamente accessibile e quasi piacevole. In pratica, l’opposto di ciò che rientra nello spirito del vero Godard.
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