I migranti di oggi? Parenti sfortunati del mio Ninetto

di Alessandro Mezzena Lona
L’ultimo arrivato è il protagonista del suo romanzo, non lui. Marco Balzano, questa sera, potrebbe arrivare primo tra i cinque scrittori finalisti al Premio Campiello. Per due motivi. Il suo libro, “L’ultimo arrivato” pubblicato da Sellerio, è indubbiamente ben costruito, accattivante, si fa leggere con gran gusto. E poi lo scrittore di Milano, che ha radici in Puglia e di mestiere fa il professore al liceo, con i premi ha una certa dimestichezza. Visto che ha già intascato il Dessì e il Corrado Alvaro per l’opera prima con “Il figlio del figlio”, il Flaiano con “Pronti a tutte le partenze”.
Certo, non sarà facile portarsi a casa il Campiello 2015. Nella serata di oggi al Teatro La Fenice di Venezia (condotta per il terzo anno consecutivo da Geppi Cucciari e Neri Marcorè, che avrà come ospite la cantante Simona Molinari e andrà in direzza sul satellite, a partire dalle 20.05 sul canale 832 di Sky e Tivùsat, e sul digitale terrestre dalle tv del Consorzio Reti Nord Est con la regia di Cristian Biondani), Marco Balzano (nella foto di Basso Cannarsa) dovrà scontrarsi innanzitutto con Antonio Scurati, che il Premio l’ha già vinto nel 2005 e che vorrebbe fare il bis con “Il tempo migliore della nostra vita” (Bompiani). E poi con Paolo Colagrande e il suo “Senti le rane” (Nottetempo), Carmen Pellegrino e “Cade la terra” (Giunti), Vittorio Giacopini e “La mappa” (il Saggiatore).
Come in ogni competizione che si rispetti, c’è però un problema. Sellerio, che pubblica “L’ultimo arrivato” di Balzano, ha già vinto il Campiello l’anno scorso con “Morte di un uomo felice” di Giorgio Fontana. E pure nel 2011 con “Non tutti i bastardi sono di Vienna” di Andrea Molesini. Starà alla giuria dei 300 lettori anonimi, tra cui anche quest’anno spunterà qualche vip, decidere se conta più il libro o la necessità di rispettare un’alternanza tra le diverse case editrici.
Laureato in Lettere, prima poeta, poi saggista e infine romanziere. Balzano ha costruiito il personaggio di Ninetto, protagonista de “L’ultimo arrivato”, seguendo la voglia di raccontare una microstoria d’Italia troppo in fretta dimenticata. Quella dei ragazzini che partivano dal Sud, in particolare dalla Sicilia, per cercare fortuna a Milano. Al Nord. Costretti a diventare grandi in fretta, lontano dai genitori e dalla loro terra. Un romanzo che, andando a ritroso nel passato, finisce per riannodare i fili del tempo con un presente segnato da un’emigrazione diversa, ma ancor più drammatica. Quella di chi scappa dalle guerre, dalla follia dei dittatori.
«È stata una sorpresa scoprire che quello dell’emigrazione minorile - dice Marco Balzano - sia stato un fenomeno così massiccio, e per nulla sporadico, nella storia recente dell’Italia. Così mi è venuta la voglia, prima di tutto, di studiare l’argomento su alcuni saggi storici. Poi ho provato il desiderio di scrivere un romanzo per trovare un punto d’incontro tra la memoria storica e quello che stiamo vivendo nel nostro tempo».
È andato a cercare chi ha vissuto sulla propria pelle questa storia?
«Sì, perché questi ex ragazzi sono ancora vivi. Possono raccontare con la loro voce quello che hanno vissuto. E allora, prima di scrivere castronerie, mi sono detto che era giusto incontrarli. Ascoltarli».
Come ha fatto a trovarli?
«Tramite il padre di un mio amico. C’erano nella sua famiglia un paio di ex ragazzi che avevano lasciato la Sicilia, per trasferirsi nel Nord d’Italia, da giovanissimi. Da lì ho avuto la fortuna che mi indirizzassero anche ad altri testimoni del tempo. Ognuno di loro conosceva compagni di lavoro, di condominio, di partito, che potevano raccontare storie analoghe».
Quanti ne ha intervistati?
«Una quindicina. Senza mai prendere appunti. Volevo essere stimolato dai loro ricordi, non condizionato. La letteratura ha un compito diverso dalla saggistica. Deve problematizzare la realtà, non riferirla. Non volevo scrivere un riassuntino delle vite di queste persone, ma inventare un personaggio che le rappresentasse un po’ tutte».
Ninetto è totalmente inventato?
«È un personaggio da romanzo. Io sono uscito dalla realtà storica, mentre scrivevo. Ho lasciato che le voci dei testimoni sfumassero dentro di me, per lasciare che lavorasse la fantasia. E ci sono ritornato, a quella realtà storica, raccontando un destino individuale che riassume tutti gli altri».
Lei è nato a Milano, la sua famiglia ha origini al Sud?
«Non in Sicilia, come Ninetto, ma in Puglia. La mia famiglia è fatta anche di migranti. L’ho raccontato nel mio primo romanzo del 2010, “Il figlio del figlio”. Anche il secondo, “Pronti a tutte le partenze”, affronta i temi dell’emigrazione, del lavoro».
Il lavoro: un tema spinoso ieri come oggi?
«Volevo che il passato e il presente si parlassero. Infatti, se il romanzo inizia nella Milano degli anni ’60, poi si espande fino ad arrivare a un tempo vicino al nostro. Quello in cui il Nord d’Italia si riempie dei nuovi “ultimi arrivati”».
E l’emigrante di ieri si specchia in quelli di oggi: cinesi e altri...
«Non volevo scrivere il libro “Cuore” né un romanzo politicamente corretto. Ninetto è dominato dai suoi tabù, dall’ignoranza, non smette di girare portandosi appresso il coltello. Eppure non può fare a meno di stabilire un dialogo con i nuovi emigranti. Con cui o ci si incontra o ci si scontra. Ma che non si può fare a meno di considerare».
Non diventano amici, anche se hanno storie simili.
«Non volevo che la storia si tingesse di rosa. Ninetto non ha gli strumenti per capire i nuovi arrivati. Al di là dei pregiudizi, però, li guarda, prova a parlare. Però ci sbatte contro».
Il protagonista ricorda “Lo straniero” di Albert Camus.
«Non a caso lo cito nel libro. Volevo che Ninetto fosse prigioniero della miseria che ha avuto, ma anche capace di meravigliarsi delle cose. Per esempio, si innamora delle parole ricordando le esortazioni del suo suo maestro di scuola. Certo, lui è uno un po’ straniero a se stesso. Vive più dentro di sé che nelle relazioni con gli altri».
Oggi l’emigrazione non ha grandi orizzonti di speranza.
«Non volevo strizzare l’occhio alla realtà di oggi, scrivendo il mio “Ultimo arrivato”. Certo, però, che l’emigrazione del boom economico era legata a un’Italia che guardava al domani con grande aspettative. Non nego la fatica, ma se ti rimboccavi le maniche e avevi voglia di lavorare, in qualche modo ce la facevi. Lo ha raccontato molto bene il film “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti. Oggi l’emigrazione ha assunto dimensioni intercontinentali in un momento in cui la crisi travolge l’Occidente, per non dire il mondo».
E poi i nuovi profughi scappano perché non posson restare a casa loro.
«Una condizione disperante. Un tempo chi arrivava dal Sud al Nord, ma anche chi emigrava dal Friuli, dal Polesine, doveva fare i conti soprattutto con il bisogno di lavorare e guadagnarsi la vita».
Stando in mezzo ai ragazzi, da professore, ha imparato a raccontarli...
«Io, in realtà, non ho mai smesso di andare a scuola. Ho iniziato a insegnare a 24 anni. Praticamente subito dopo la laurea in Lettere, con una tesi sul pensiero filosofico di Giacomo Leopardi. Adesso sono in un Liceo classico e credo che fare il professoree significhi farsi comunque stupire dagli studenti ogni giorno».
Non demonizza i giovani d’oggi?
«No, anzi, è doveroso smontare i luoghi comuni sui ragazzi che non si fanno stimolare. Ne hanno fin troppi, di stimoli. A me fanno più paura gli adulti che decidono di avere un figlio a 40 anni perché prima sono troppo presi dalle mille cose che vogliono fare».
Quando ha iniziato a scrivere?
«Ho sempre scritto. Anche se si arriva a pubblicare molto più tardi. Sono partito dalle poesie, poi mi sono dedicato alla saggistica universitaria. Dal 2010 ho affrontato la via del romanzo, con l’incoraggiamento di scrittori e critici che stimo come Massimo Onofri, Raffaele La Capria, Luisa Adorno».
Con i premi ha un buon rapporto?
«Ne ho vinto uno anche nei giorni scorsi. A Capodistria mi hanno assegnato il Fenice Europa, in cui votano gli italiani che vivono in Slovenia».
Al Campiello ci va sereno?
«Eugenio Montale diceva in “Gloria del disteso mezzogiorno” che “in attendere è gioia più compita”. Non è vero, perché queste attese infinite sono snervanti. Non sarò preoccupato né stanco a Venezia, purché arrivi presto la serata finale».
Legge molti libri?
«Sono un lettore onnivoro. Leggo classici e contemporanei. E non sono d’accordo con chi dice che la narrativa d’oggi sia molto debole. Ci sono scrittori straordinari in giro, anche se pubblicando tanto ci si imbatte anche in libri che fanno rimpiangere i vecchi capolavori».
Altri mondi paralleli da frequentare?
«Mia figlia Caterina, di un anno e mezzo, mi apre ogni giorno una dimensione nuova. Perché, non parlando ancora bene, mi concede un po’ di respiro dalla valanga di parole quotidiane. E poi, sono un amante dei vini».
Sommelier?
«Sì, per tradizione familiare. La passione me l’ha trasmessa mio padre. E gli amici con cui avevamo il Dottorato di ricerca alla Statale di Milano. Poi, la crisi ci ha tagliato le gambe, mettendoci fuori dall’Università, e noi ci siamo dedicati al vino».
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