I sogni di Arturo Nathan e la solitudine dell’uomo nei segreti di Trieste

il branovittorio sgarbiA darci un’idea più chiara dell’opera di Arturo Nathan (1891– 1944), che ha pure avuto scelti e sensibili interpreti, è stato Giorgio de Chirico, con la sua prosa limpida e...

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vittorio sgarbi

A darci un’idea più chiara dell’opera di Arturo Nathan (1891– 1944), che ha pure avuto scelti e sensibili interpreti, è stato Giorgio de Chirico, con la sua prosa limpida e sentenziosa, solenne e ironi ca. De Chirico parte dalla fine, si indigna, secco (siamo nel giugno del 1945), per l’insensata violenza dei nazisti. Subito ci dice di lui e di loro, e lo fa senza retorica: “Era un uomo intelligente, mite, giusto e buono ed è stato assassinato dai tedeschi perché era ebreo”. Capiremo di fronte all’opera, frutto di un’estrema pulizia dello sguardo davanti a una natura educata da civiltà ora scomparse, di cui restano dispersi frammenti, che Nathan era “mite, giusto e buono”. Capiremo anche, dalla sua ansia di partire, dalla visione di orizzonti oltre i quali il desiderio innalza una patria perduta, che era ebreo. De Chirico continua descrivendo nel modo più semplice la vita quotidiana di Nathan: “Lavorava tutto il giorno, in una società di assicurazioni, a Trieste, per mantenere la sua vecchia mamma e la sera stava per lunghe ore a disegnare e dipingere, o a leggere libri di filosofia e poesia, sempre assorto in un sogno ideale di pensie ro superiore e di creazione d’arte.”

La vita pratica, parallela alla vita poetica, assimila il destino di Nathan a quello di altri triestini come Umberto Saba, libraio e poeta, e Italo Svevo, bancario e scrittore. Tensioni sotterranee, destini segreti, misteri di Trieste. E tutti intorno al grande, appassionante tema dell’anima, o meglio della psiche, nella moderna interpretazione della psicoanalisi (...). Molta attenzione presta a questo rapporto tra cultura triestina e psicoanalisi lo scrupoloso esegeta di Nathan, Maurizio Fagiolo dell’Arco, che è anche un attento studioso di de Chirico. È lui a ricordare un’insistente dichiarazione di Giorgio Voghera sui triestini “neurotici molto tormentati dalla propria neurosi”: e lo specchio di questa condizione è ne La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Così il rapporto metafisica/surrealismo/psicoanalisi trova una verifica nell’opera di Nathan, in parallelo con la letteratura. I dipinti che esaltano la solitudine dell’uomo come unica con dizione possibile producono questa convinzione di Nathan: “L’arte ha un solo soggetto: lo spirito del suo autore, in ciò che con tiene di profondo, di nascosto e in quanto fa parte della sua vita intima. ” De Chirico ha sintetizzato tutto questo nella formula per fetta: “Sogno ideale di pensiero superiore e di creazione d’arte.” Una definizione che rappresenta tutta la tensione “metafisica” (anche in senso filosofico) dell’opera di Nathan. E ciò cui possono essere assimilati, più di tutto, i dipinti di Nathan, sono certamente i sogni. Sogni ricorrenti, con navi nel porto o navi naufragate, a significare una partenza impossibile, un viaggio interrotto.

Nella formazione di Nathan convivono Salgari e Nietzsche, Schopenhauer e Verne, così come la sua immaginazione si nutre per discendenza diretta di Friedrich e de Chirico, senza perdere né originalità né autenticità. Anche per questo de Chirico è illuminante quando racconta e descrive il primo incontro con Nathan a Roma, sotto il segno di una “amicizia nietzschiana”. Nathan, come De Dominicis, ha un unico rapporto con chi– se non con l’assoluto. E allude ancora alla psicoanalisi quando, descrivendo una passeggiata insieme a Nathan per ammirare (con osservazioni acute e originali) il monumento equestre di Missori a Milano ( “gli parlai a lungo della metafisica che acquistano i monumenti e le statue, in mezzo alle pubbliche piazze, quando sono posti su zoccoli bassi, di modo che sembra partecipino alla vita della città, e gli dissi anche che Schopenhauer consigliava ai suoi contemporanei di non mettere le statue su zoccoli molto alti”), conclude: “Gli parlavo ed egli mi ascoltava, tutto attento e pieno di entusiasmo represso.” Ecco un’altra formula efficacissima: “entusiasmo represso”. Pochi dipinti di questo secolo esprimono, come quelli di Nathan, una tale condizione. Non certamente quelli di Savinio, esternamente affine a Nathan ma di ben diverso spirito. Lo hanno perfettamente inteso, primi a stimolare la moderna ripresa di interesse per Nathan un quarto di secolo dopo, de Chirico e Antonello Trombadori: “l’immagine senza tempo” dei surrealisti, la geniale contaminazione dechirichiana di reperti “archeologici” e figurazioni “documentarie” della moderna realtà, fanno sì parte del bagaglio intellettuale di Arturo Nathan, ma ne sono allo stesso tempo gli antipodi. L’ironia e il giuoco (ciò che oggi nel gergo si definisce “ludico”) sono estranei a Nathan. Gli sono estranei anche l’ironia e il giuoco di de Chirico, che, a differenza di quelli di Magritte e di Savinio, conoscono il sale amaro della malinconia e, a volte, si traducono in grida, in urli inascoltati. Torniamo a de Chirico e alla sua formula “entusiasmo represso”. Di questo “en– tusiasmo” (di derivazione romantica) “represso” (la variante decadente o “moderna”, psicoanalitica) sono documento, negli anni venti, gli autoritratti e i ritratti di assoluta simmetria e immobilità. L’asceta, del 1927, è chiuso in una cappa rigida come di marmo, un sudario inamidato in un’invenzione degna di Adolfo Wildt, con gli occhi che ci guardano allucinati, sbarrati; questa paralisi, questo irrigidimento, consente una visione del mondo a occhi aperti cui soltanto un anno prima Nathan si era sottratto, rappresentandosi a occhi chiusi, come per un rifiuto della realtà che si apre alle sue spalle e dalla quale si isola. (...)

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