Il “bangla” di Tor Pignattara corteggia l’italiana Asia tra pregiudizi e cliché



Phaim Bhuiyan è un ragazzo musulmano di 22 anni, nato a Roma da una famiglia originaria del Bangladesh e abita da sempre nel quartiere più multietnico della capitale, Tor Pignattara. Come tanti italiani di seconda generazione, la sua identità è un mix inscindibile tra la sua cultura di origine e quella assorbita in Italia e Phaim vive cercando di far andare d’accordo la sua religione con lo stile di vita occidentale: non beve, non mangia carne di maiale e non fa sesso prima del matrimonio, anche se questo è il precetto più difficile da rispettare. Soprattutto quando si innamora di Asia, una coetanea figlia di un ex musicista di sinistra e di una mamma scopertasi lesbica, che sembra essere agli antipodi rispetto alla cultura della famiglia di Phaim.

Il ragazzo è diviso: vuole seguire i suoi desideri, ma nello stesso tempo restare fedele alla sua religione. Il suo travaglio personale è il cuore di “Bangla”, una delle commedie italiane più fresche e divertenti dell’anno, certamente un esordio felice. Il film parla di integrazione, ma lo fa in soggettiva, perché la storia è proprio quella vera del regista, che la interpreta in prima persona: Phaim ha avuto davvero una relazione con una ragazza italiana, nonostante la sua famiglia preferisse per lui una fidanzata bengalese. Lontanissimo da intenti sociologici, senza nessuna pretesa di farsi portavoce di una generazione di ragazzi di famiglie straniere ma nati in Italia, Phaim Bhuiyan compone un racconto intimo, tenero e a tratti esilarante, tutto fondato su un’autoironia fulminante e mai compiaciuta.

Il regista getta uno sguardo sarcastico sulla comunità bengalese, con le sue regole interne e i suoi lati buffi, ma anche sui preconcetti degli italiani che faticano ad accettare uno stile di vita diverso. E, soprattutto, Phaim è uno straordinario corpo comico, con il suo tono stralunato, le movenze di chi non si sente mai al posto giusto e la voce off che rende udibili i suoi pensieri. Impacciato con le donne, analitico con la famiglia, il regista infila qualche scena che ricorda il giovane Moretti (come quella del primo incontro con Asia a un concerto).

Nonostante qualche limite, soprattutto nell’approfondimento di relazioni e personaggi, la commedia funziona: rispetto ai tanti registi di origine italiana che hanno provato a raccontare l’integrazione, Bhuiyan è immune da ogni rischio di retorica, perché ha vissuto dall’interno molti dei cliché dei quali si burla. Non a caso mette davanti alla macchina da presa pezzi del suo mondo reale: per esempio, la mamma sullo schermo è la sua vera madre.

Il film ricorda il filone europeo sui ragazzi di seconda generazione, dal britannico “East is East” di Damien O’Donnell al francese “Non sposate le mie figlie!” di Philippe De Chauveron. Eppure ha un’anima molto italiana: il regista dichiara di essersi ispirato ad “Ovosodo” di Paolo Virzì, ma c’è dentro anche l’impronta del cinema che negli ultimi anni ha raccontato la Roma della periferia.

Alla fine il messaggio, enunciato dal protagonista, è chiaro: «Questa cosa che siamo tutti diversi ma siamo tutti uguali è una cazzata. Non siamo uguali per niente», dice Phaim ad Asia quando lei scopre che il ragazzo sta nascondendo la relazione ai suoi genitori. Ed è vero: è ingenuo far finta che certe differenze culturali non esistano. L’importante è trovare l’equilibrio per farle convivere, e ricordarsi che sono parte integrante dell’Italia di oggi. —





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