“Il figlio di Saul” racconta storie di ebrei costretti ad ammazzare altri ebrei

di Beatrice Fiorentino
È sempre più raro riuscire a provare stupore al cinema, e quando accade è un'epifania. Com'è successo all'ultimo Festival di Cannes, dove il regista ungherese László Nemes (già assistente del grande Béla Tarr) ha lasciato tutti di stucco con il suo film di esordio "Il figlio di Saul", giustamente insignito con il Gran Premio della Giuria. Ha vinto anche il Golden Globe come miglior film straniero e, nella stessa categoria, correrà per l’Oscar. Il trentottenne Nemes riesce nel difficile intento di raccontare l'Olocausto come non lo si era ancora mai visto prima. Scelte coraggiose e un'idea di cinema radicale (il volto o le spalle del protagonista Saul Ausländer sempre in campo, dialoghi scarni, lunghi piani sequenza, il claustrofobico formato del 4:3, l'uso del fuori fuoco come filtro etico) fanno de "Il figlio di Saul" un'opera potente e rigorosa.
Il film, ispirato da una serie di testimonianze raccolte in Italia nel volume "La voce dei sommersi" curato da Carlo Saletti e pubblicato da Marsilio, è ambientato ad Auschwitz all'interno di uno dei Sonderkommando, gruppi di ebrei che prima di essere uccisi a loro volta erano costretti a sterminare altri ebrei "accompagnandoli" alle camere a gas dopo averli rassicurati e fatti spogliare. Quindi rimuovevano "i pezzi", come venivano chiamati i cadaveri, li bruciavano e ripulivano. Tutto doveva avvenire con estrema rapidità, a ritmi quasi industriali, come in una vera e propria fabbrica dell'orrore. Un giorno Saul, dopo aver assistito alla morte di un ragazzo che dice essere suo figlio (e non ha importanza scoprire se lo sia veramente), decide di tentare l'impossibile per cercare di dare a quel corpo inerme una dignitosa sepoltura.
Giovedì 21 "Il figlio di Saul" esce in sala distribuito dalla Teodora Film, ma sarà presentato in anteprima nazionale al cinema Ariston di Trieste, domani alle 20.30, alla presenza del protagonista Géza Röhrig, che ha accettato di raccontarci qualcosa di sé e del suo lavoro. La serata è organizzata da Cappella Underground e Trieste Film Festival, come evento di anticipazione della 27° edizione (22-30 gennaio) e in collaborazione con la Casa del Cinema di Trieste.
Nato a Budapest nel 1967 ha perso i genitori all'età di quattro anni e ha vissuto in orfanotrofio fino ai dodici, quando è stato adottato da una famiglia ebrea. Ha vissuto a Gerusalemme e in Polonia, dove ha lavorato come attore per alcune serie tv. Si è diplomato all'Accademia di Teatro e Cinema di Budapest e oggi vive con moglie e figli a Brooklyn, dove insegna e scrive, romanzi e poesie.
Com'è avvenuto il suo incontro con László Nemes? E quando avete deciso che avreste lavorato insieme a "Il figlio di Saul"?
«Ho conosciuto László a New York nel 2007, quando ancora stava girando cortometraggi. Qualche anno dopo, inaspettatamente, mi ha inviato la sceneggiatura del suo film. L'ho letta subito, ci avrò messo meno di un'ora e ho risposto subito che volevo essere coinvolto nel progetto. Allora l'ho raggiunto a Budapest dove abbiamo cominciato le prove in un teatro di posa. Siamo andati avanti per circa un mese con László che mi osservava da dietro le quinte, finché mi ha proposto il ruolo del protagonista. Ha dovuto un po' insistere con i produttori perché io non sono un attore professionista,. ma alla fine hanno accettato la decisione».
Questo è un film che parla più attraverso le immagini che con le parole. È stato difficile comprendere la natura del progetto da una sceneggiatura con così pochi dialoghi?
«È così, si parla più per immagini che con le parole e questo per diverse ragioni. László voleva rendere l'idea della routine a cui erano costretti questi uomini. Ogni giorno affrontavano prove pesantissime. Mangiavano, lavoravano, dormivano. Per questo ha deciso di focalizzare l'attenzione su questi gesti compiuti quasi meccanicamente, sulle azioni, più che sui dialoghi. L'altra ragione è storica, perché i nazisti sceglievano i componenti dei Sonderkommando da diverse comunità culturali e linguistiche. In questo modo evitavano i contatti tra loro e questo anche nel film si vede, i personaggi non comunicano quasi mai tra loro. Ognuno parlava la propria lingua. In più Saul è un personaggio solitario, diverso dagli altri, uno che tende a stare per conto proprio e fare di testa sua. Ma ancora più delle immagini, nel film conta soprattutto il suono. Si tratta di una scelta del regista per dare una forte impronta stilistica al film. Ha voluto mostrare poco e affidarsi di più al sonoro. Per prepararmi a interpretare Saul ho letto molto, perché sia io che László trovavamo insopportabili la maggior parte dei film sull'Olocausto e quindi volevamo intraprendere una direzione diversa. Ho letto molto, Primo Levi è in assoluto il mio scrittore preferito».
La sua biografia sembra quella di un uomo ribelle e anche Saul - nei limiti imposti dalla situazione estrema - è un ribelle. Inoltre lei è cresciuto in una famiglia ebraica. Quanto ha pesato il suo vissuto nel personaggio?
«Ciò che è stato veramente decisivo per avvicinarmi al personaggio di Saul, non è stata tanto la mia famiglia adottiva, attraverso la quale comunque ho conosciuto la storia del popolo ebraico, quanto la mia esperienza all'orfanotrofio nei primi anni di vita. A quattro anni ho perso il mio vero padre e mio zio, pensando che fossi troppo piccolo, mi ha impedito di andare al suo funerale. Il fatto di non essere riuscito a seppellire mio padre è qualcosa con cui devo ancora fare i conti. Questo fatto privato mi ha aiutato a comprendere l'ossessione di Saul nel voler dare sepoltura al ragazzo, perché so quanto sia importante poter dire addio alle persone».
Oltre alla rappresentazione degli orrori dell'Olocausto, pensa che il film possa essere letto anche in chiave contemporanea?
«Assolutamente, perché nella storia dell'umanità il genocidio non è un'eccezione ma una minaccia sempre presente. Come padre di quattro figli ho ancora paura di guerre future. Per questo bisogna sempre ricordare che il Potere, quando diventa assoluto, è estremamente pericoloso. Bisogna essere sempre vigili e attenti, contestare contro gli abusi, agire responsabilmente. L'impegno civile è fondamentale per opporsi all'estremismo, in qualsiasi luogo e circostanza. Gli artisti devono allontanarsi dalle ideologie. Il cinema quindi non deve essere ideologico, ma restare umano e parlare di individui le cui storie possono aiutare a interpretare la Storia».
Oltre a recitare lei scrive. Poesie e narrativa. Di cosa parla il romanzo che sta scrivendo?
«Parla di zingari, in una saga familiare che attraversa tre generazioni. All'orfanotrofio ce n'erano parecchi. È una comunità che conosco bene, in Ungheria ce ne sono più di un milione. È la più vasta minoranza nell'Europa dell'est, non rappresentano nessuna lobby e, al contrario dei migranti, loro vogliono restare dove sono. Non cercano una patria, una casa, una nazione. Sono come noi ma vivono in maniera molto povera. Ci costringono a pensare al nostro modo di vivere e alla nostra identità sempre più fragile, anche a causa delle continue intrusioni di internet e della tivù che ci fanno perdere le tradizioni».
Ha fatto programmi per la notte degli Oscar?
«È una cerimonia stupida e vuota, non mi interessa affatto partecipare a party ai quali sei costretto a sorridere sempre, né sfilare sul tappeto rosso. L'unico aspetto che trovo utile nel caso dovessimo vincere l'Oscar, è la spinta promozionale che può garantire, aiutando a diffondere il messaggio e far vedere il film a più persone possibili, soprattutto ai giovani. Per me contano soprattutto le generazioni future».
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