Il fiume degli abissi storie e uomini ci accompagnano lungo il Timavo

Esce il nuovo libro del giornalista triestino Maurizio Bait un percorso denso di suggestioni e richiami letterari



Quella linea climatica che attraversa Trieste e così ben nota ai botanici, per i quali il ciglione carsico fa da spartiacque tra il leccio e il pino nero, rende il triestino una specie di Giano bifronte, diviso tra il richiamo delle dolcezze del mare e le asprezze continentali. Maurizio Bait, una vita da redattore al Gazzettino (ma anche scrittore sensibile cui si deve un umanissimo ritratto del ‘poeta matto’ Federico Tavan), è uno di quei triestini che per indole, temperamento e cultura tra Valrosandra e la Sacchetta non ha dubbi, mette il rucksack sulle spalle e si addentra tra i sentieri del Carso.

Aperte le prime pagine del suo libro fresco di stampa ‘Il fiume degli abissi’ (Morganti, pagg. 173, euro 17), troviamo il suo zaino posato sulla cima del Monte Nevoso, da dove comincia il suo personale viaggio alla ricerca di ‘storie, uomini e leggende attorno al Timavo’. Viaggio interiore, prima di tutto, come suggerisce la copertina del libro disegnata da Piero Schirinzi, che ricorda le illustrazioni del poema dantesco di Gustav Doré e che ritrae un uomo, bianco il mantello e il cappuccio, in piedi su una barca in un antro gigantesco, illuminato dall’alto da una cascata di luce, diafana e lontana. “La Verità – scrive Bait - sta nel senso del viaggio, materiale e ancor più psicologico”.

Questo pellegrino che scende nel sottosuolo del Carso per seguire il corso del Timavo non ha un solo Virgilio a fargli compagnia ma decine: sono gli scrittori, pittori, musicisti, che affollano il pantheon laico di Bait e ne costituiscono l’ossatura profonda. Michelstaedter, Rilke Ludwig Wittgenstein, Mann, Wedekind, Handke, Cezanne, Mahler e tanti altri. Libro colto, quello di Bait, non solo geopolitico e geopoetico, secondo la definizione che ha lasciato Predrag Matvejević, ma denso di letture distillate che vengono fuori asciutte e limpide come un bicchiere di slivovitz, il liquore dal ‘sapore alato’ il cui aroma giunge sulla vetta del Nevoso dal mondo Balcanico. Si intravede così quello che è il grande tema caro all’autore, la frontiera, quel suo essere incontro e collisione, separazione di confini segnati dagli uomini e dalla natura.

Il Timavo ha scavato il confine fra gli altopiani carsici e le catene dinariche del Nord, ma l’anima slataperiana di Bait glielo fa amare proprio perché il suo corso sotterraneo fa mille giravolte, si apre ad altre acque, accoglie e contamina, si annulla prima di allargarsi nella foce. Un fiume che non divide ma compenetra. Un destino che Bait avverte già a Illirska Bistrica, dove annota: “qui il senso assoluto dell’essere è la frontiera, ‘non luogo’ della contaminazione e dell’approdo plurale”. E poi ci introduce in uno dei suoi campi preferiti, quello della divagazione. “Bistrica, aggiunge, è parola slava dalla radice comune e deriva forse dal latino Bistertia o forse da Bistro. Perciò da allora il Bistrot è l’osteria dove si serve al passo del torrente. Una parola francese derivata dalle lingue slave e che per francese puro s’è spacciata lungo duecento anni”.

Divagando, la pagina scritta si anima, prende calore, diventa racconto davanti al camino acceso, la neve fuori, l’orso che vaga nella foresta. La duplice, nera, cubitale iscrizione fascista Dux Rex che si legge ancora oggi su una casa di Famlje, è l’occasione per una riflessione sulle sofferte vicende che tra guerra e dopoguerra segnarono queste terre di frontiera: “Riconoscere la certamente vera nefandezza della reazione rimuovendo l’altrettanto reale atrocità dell’azione – scrive Bait - non preserva la pietà per le vittime dell’una e dell’altra parte, non restituisce i morti e non onora i fatti. Incarna soltanto la contraffazione della storia e pertanto impedisce le forme consapevoli ed evolute della libertà”.

Questo nostro essere di frontiera è insieme grandezza e dannazione, ragiona Bait. Per fortuna l’acqua non paga dazi e non converte divise nazionali. Ma mentre il fiume scorre libero, sulla superficie restano le tracce del desiderio di potenza degli uomini. Punte di lancia, elmi, asce, spade ritrovate a San Canziano risalgono a prima della guerra di Troia, nell’aria aleggiano resti di riti pannonici e civiltà paleoveneta. L’incontro di genti affascina Bait, mondo slavo e mondo latino si affrontano da secoli quassù, si guardano in cagnesco. Eppure un'altra strada sarebbe possibile. Qualche volta lo è stata: Srecko Kosovel alla fine della guerra era diventato amico di un ufficiale italiano, Carlo Curcio, che fu poi giornalista e scrittore. Ecco che “l’incontro tra culture, l’incontro di letterature e di sentimenti è l’unico salvacondotto dalle secche dei luoghi e dei rancori comuni”.

Raccontando del Timavo, Bait incontra il Carso, riconoscendo nei suoi silenzi, con Peter Handke, il segno di ciò che dura, il terrano, la splendida Edda Marty di Stuparich. Alla fine del suo viaggio di carta Bait giunge sul balcone di Duino, si affaccia all’Adriatico e affida l’ultima riflessione alla “splendida Trieste, nostra amata perduta e necessaria. Essa conserva viscere malate di un cupo, brulicante, diffidente provincialismo, il quale le impedisce di accettare la propria solare grandezza”. —

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