“Il genio di Trieste”, storia filosofica di una città cosmopolita
Arriva in libreria il saggio di Maurizio Marzi Wildauer, pubblicato da Rubbettino,
sulla ascesa e il declino della città fra 1719 e 1918. Oggi la presentazione

Agli inizi del Settecento, all’alba della prima stagione globale, l’impero decide di fare di Trieste la sua finestra sul mare e quindi sul mondo. A quei tempi il comune triestino è una società di fatto medievale: ha un ceto patrizio che fonda la propria legittimità sul mito di una storia romana, una conformazione urbana delimitata da mura e disposta attorno ai simboli del castello e della cattedrale, una identità religiosa che permea tutta la società ed è fondata sul cattolicesimo tridentino. L’esperimento modernizzatore degli Asburgo cancellerà questo piccolo mondo antico, trasfigurando il borgo costiero - chiuso nel suo microcosmo- in una grande città portuale cosmopolita.
In “Il genio di Trieste – Nascita e declino di una città cosmopolita” (Rubbettino, pp. 304, 24 euro), in uscita oggi nelle librerie, l’autore Maurizio Marzi Wildauer propone nuove chiavi di lettura per questa storia, tante volte narrata all’ombra di San Giusto. Il testo maneggia fonti primarie, la storiografia dell’epoca e quella contemporanea (da Elio Apih a Marina Cattaruzza), dandone una lettura filosofico politica.
La ricetta prevede ingredienti che faranno torcere qualche naso in una città di tanto radicata tradizione razionalista, poiché attinge da nomi sulfurei del pensiero conservatore del Novecento, a partire dal giurista tedesco Carl Schmitt. Per quanto l’autore – che è uomo di istituzioni triestine – ricada in alcuni automatismi concettuali specifici del punto di vista italiano, riesce a mettere in luce alcuni aspetti della vicenda finora rimasti in ombra, e che sfuggono al riduzionismo alla questione nazionale che ancora intrappola tante riflessioni sulla storia del Litorale.
Ripercorriamo per sommi capi l’argomentazione. Quando Carlo VI conferisce alla città la sua patente di porto franco, nel 1719, Trieste è la società d’Antico regime descritta in attacco. Il ritmo della sua esistenza, immutato da secoli, è scandito dalla fede, dai suoi santi, dalle sue liturgie. La sua sonnacchiosa classe dirigente, imbevuta di umanesimo, non è all’altezza della missione che gli Asburgo le affidano. Nei decenni che seguono l’impero, impegnato nel suo secolare corpo a corpo con la modernità, si prefigge quindi di fondare un’altra Trieste accanto al vecchio borgo. Una città che risponda alle sue aspettative.
Sotto il regno di Maria Teresa al posto delle vecchie saline sorge il nuovo borgo, ortogonale e razionalista, antitetico all’organica cittadella accoccolata sotto al colle di San Giusto. A dispetto del suo tradizionalismo, la cattolicissima sovrana concede libertà di culto alle comunità che vorranno insediarsi a Trieste per contribuire al fiorire del porto.
Sotto il breve regno di suo figlio Giuseppe II, che sulla città incise a fondo, questo esperimento sembra addirittura inserirsi in un processo di riforma generale dell’impero.
Nel mentre la popolazione aumenta a ritmo vertiginoso, si moltiplicano le comunità e le confessioni, ognuna portatrice della propria storia e delle proprie tradizioni, e le polverose istituzioni comunali vengono relegate nell’ombra. Gradualmente il consiglio dei patrizi perde ogni potere, la città vecchia è privata delle sue mura e di tante delle sue numerosissime chiese. Tramonta un antico ordine politico.
L’ordine nuovo che lo sostituisce però, argomenta Marzi, è di natura impolitica: il suo collante è il capitale. Per circa un secolo la città (vecchia e nuova) resterà priva organi politici, così come di rappresentanti alla corte di Vienna. Portavoce dei nuovi interessi locali sarà invece la Borsa, la quale secondo la sua natura porterà a corte istanze di tipo economico, tecniche e non politiche. La libertà di culto si accompagna alla riduzione della religione a questione privata, e lo spazio pubblico si configura come un neutro teatro degli affari. Senza cadere nei tranelli antisemiti che i suoi riferimenti teorici potrebbero implicare, l’autore scrive: «Quella che, all’alba del XIX secolo, uscì forgiata da questa incredibile fusione di politiche mercantili, cultura calvinista, avanzato capitalismo e mentalità liberale fu, pertanto, una modernissima borghesia che, aliena a ogni utopia sociale, era cosmopolita in senso economico sia per vocazione che per necessità». Questi mutamenti sono ben presenti alla coscienza dei contemporanei, che dibattono già allora di “vecchi” e “nuovi triestini”.
È qui che, dopo essersi fatto accompagnare da Heidegger nell’analisi dello sradicamento, Marzi usa le sue chiavi schmittiane. Cosa succede quando, a metà del XIX secolo, la politica torna ad avere dei luoghi a Trieste? Come limatura di ferro immersa in un campo magnetico, la società si polarizza secondo le linee amico-nemico che il giurista tedesco pone a fondamento del piano del politico. Mentre la grande borghesia continua a muoversi nella dimensione cosmopolita dell’impero e vive in un antefatto de L’uomo senza qualità, tenendosi lontana dalla politica politicante, la media e la piccola borghesia rielaborano i miti della vecchia Trieste, riempiendoli di contenuti nazionali di ben più recente fattura. È lo spirito liberalnazionale, che coniuga l’ordinato vivere borghese triestino a un anelito quasi esotico verso la patria all’altra sponda dell’Adriatico. Perché, in uno spazio cosmopolita, a configurarsi come opposti sono questa spinta e quella del nazionalismo sloveno? Qui l’autore impiega un’altra coppia di concetti schmittiani, terra e mare, per leggere una conflittualità politica che sta a monte dell’aspetto nazionale.
Se la vecchia Trieste medievale era un ordine tellurico, un comune inserito organicamente nel suo contesto, la nascita della nuova Trieste razionale recide quel legame, configurandosi come uno spazio autonomo, astratto. La laica borghesia triestina che nell’Ottocento scopre di volersi ardentemente italiana è figlia di questa città-isola, priva di legami secolari con l’immediato entroterra. Al contrario, la comunità slovena è l’unica a potersi porre con un diverso radicamento nel medesimo luogo, essendo Trieste inserita in continuità col resto della sua popolazione dall’altipiano. Di più, la sua identità mantiene un tratto religioso, un cattolicesimo che la lega al retrostante spazio imperiale, che nelle campagne non ha perso il suo volto d’Antico regime. Così, sotto le vesti nazionali, il processo di sradicamento che obliterò la vecchia Trieste si ripete.
Certo, questo scontro non ha il carattere esplosivo che a posteriori gli apologeti dei nazionalismi vorranno attribuirgli. Nella seconda metà dell’Ottocento, rileva il Marzi, l’apparire di queste conflittualità politiche si mantiene – salvo sporadicissimi casi - nell’alveo del civile confronto senza sfociare nella violenza. La macchina della Trieste cosmopolita è tanto rodata che potrebbe disinnescare il conflitto, tanto più che la borghesia slovena partecipa dinamicamente al suo mercato. Sarà la Grande guerra a chiudere questa stagione, portando a Trieste uno stato nazione, l’Italia, massimamente politico e presto totalitario: il libro si chiude sull’incendio del Balkan.
La prefazione dell’economista Francesco Magris offre delle chiavi di lettura per individuare nel presente l’onda lunga dei processi di sradicamento di cui l’autore parla per il Sette e l’Ottocento. Vi si trova quindi una genealogia dei pensieri che oggi contribuiscono a concepire la società come uno spazio neutro, che dev’essere svuotato dei suoi elementi di conflitto per lasciare libero gioco alla competizione fra individui sul mercato.
Il libro sarà presentato lunedì 1 dicembre alle 17.30 alla sala Piccola fenice dall’autore, accompagnato da Francesco Magris.
Come ogni volume di cui valga la pena discutere, le implicazioni della sua analisi possono essere sviluppate oltre e contro gli indirizzi di chi lo scrive. L’abbiamo fatto in parte anche in questa sede: se per l’autore l’estremismo identitario è una reazione alla pura società di mercato, si potrebbe piuttosto vedervi un approdo coerente, poiché della società borghese la nazione è il mito naturale.
Oggetto letterario ibrido, che forse spiacerà agli storici e senz’altro confonderà i politici, “Il Genio di Trieste” è un caso – non nuovo alla tradizione locale – di una pubblica persona che contribuisce alla riflessione erudita sulla storia della propria città. Vale da solo la lettura il bello stile in cui è scritto, al cui brio contribuiscono la prudenza e l’ironia – triestinissime – con cui l’autore snocciola le sue tesi incendiarie. —
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