Il gigante bambino quel giorno mi sorrise: all’ex Opp si può sognare di diventare eroi

TRIESTE. C’è un posto a Trieste che ne ha viste di cotte e di crude. Un posto dove c’è stata una rivoluzione neanche tanto silenziosa negli anni ’70, un posto in centro alla città dove le persone venivano rinchiuse. A quel tempo, bambini impertinenti crescevano facendosi rincorrere dagli abitanti delle case di ricovero. Tra di loro c’ero anch’io. Un po’ come don Quijote, la nostra fantasia di ragazzini trasformava le escursioni al parco di San Giovanni in avventure ai limiti dell’impossibile.
Oggi, anche se porto spesso i miei due figli a San Giovanni a scorrazzare in bicicletta o visitare il roseto, queste storie non gliele racconto, per vergogna. Mi limito però a raccontare quanto importante per me è stato questo posto e quanto è importante che lo diventi anche per loro.
Abitiamo qua vicino all’ex Ospedale Psichiatrico, all’Opp come lo chiamiamo tutti qui a Trieste, perciò ci veniamo spesso, quasi ogni sabato e domenica, io a piedi e i miei due bambini in bicicletta.
Hanno 4 e 8 anni e, come noi alla loro età, cercano i sentieri e le strade più nascoste, salendo dall’ingresso basso fin su in fondo al roseto. Anche loro giocano di fantasia, trovano ogni volta un modo diverso per immaginarsi spericolati viaggi in un giardino delle meraviglie. Preziose rose di tutti i tipi, dai mille colori, una quantità incredibile di quadrifogli nascosti tra i cespugli, tutti da trovare, ma anche angoli bui dove strani rumori echeggiano nei padiglioni diroccati dal tempo e fanno pensare a fantasmi di spiriti antichi.
Loro sanno chi è vissuto lì dentro, queste gliel’ho raccontato. Gli ho anche parlato di un grande uomo, uno scienziato di nome Basaglia, che qui dentro ha fatto la storia della medicina non elaborando sterili formule, ma attraverso l’empatia, con umanità. Questo a loro basta, si sentono già partecipi di un mondo fantastico che qui dentro, almeno qui, ha saputo raccontare quanto grande può essere l’uomo quando ha il coraggio di superare le proprie paure.
Quando venivo qui, però, io e i miei amici di paura ne avevamo tanta. Erano altri tempi, noi della prima elementare potevamo anche ritornare a casa da soli, a volte, c’erano meno automobili per strada e in generale meno pericoli, per cui eravamo più liberi di quanto i bambini di città di oggi possono sperare. Quando il maestro era assente, o per qualche motivo finivamo un po’ prima delle 12.30, ci spingevamo su per il parco, a caccia di avventura.
I grandi padiglioni, alcuni dismessi già allora, ci terrorizzavano. Anche se recintati, trovavamo piccoli pertugi da cui entrare e facevamo a gara a chi resisteva di più agli scricchiolii dei grandi corridoi vuoti. Si entrava uno alla volta, gli altri rimanevano fuori per contare i secondi dal momento in cui il coraggioso entrava dal portone principale. Io spesso rimanevo congelato nel giardinetto antistante, a fissare quel pertugio nero che si apriva davanti a me. Dietro avevo i miei amici, alle spalle, in maniera alternata, avanti, dietro, avanti, dietro. “Lori”, i miei amici, mi spingevano con bisbigli e male parole a trovare il coraggio, ma il più delle volte me la facevo sotto e scappavo impaurito.
Come dei piccoli esploratori nell’addentrarci nel grande comprensorio, sfruttavamo i cespugli come copertura ideale per osservare da vicino “i mati”, ma quasi sempre riuscivamo a vedere solo infermieri, inservienti, forse dottori, perché “i mati” “iera za fora”, in giro per il rione di San Giovanni a riscoprire la libertà. Solo un giorno, era primavera e pioveva, proprio davanti a noi, un uomo si mise a prendere la pioggia a petto nudo.
Una grande pancia e delle mani grossissime lo facevano sembrare un gigante ai nostri occhi. Sembrava un bambino gigantesco, un bambino ma con il corpo di un gigante. Si godeva le gocce di pioggia che gli ricoprivano la “panza” e sembravano correre tutte verso il suo ombelico. Rideva, lui, era tranquillo e felice. Poi, di colpo, si è girato brusco verso il cespuglio e noi ci siamo ammutoliti, raggelati dalla paura. Ci avevano fatto scoprire le risatine che ci aveva fatto venire.
Ha cominciato ad avanzare verso di noi, a passi decisi che sembravano far sobbalzare la terra del giardino che era sotto i nostri piedi. Ricordo ancora che sui nostri volti la pioggia ha cominciato a confondersi, mischiata con lacrime di paura. Ho trattenuto il respiro, i polmoni mi stavano esplodendo. Ha avvicinato il volto alle spine del cespuglio, noi ci siamo fatti piccoli piccoli quando lui ha scostato i rami. Era enorme sopra di noi, i suoi occhi e il suo volto grandi a pochi centimetri.
Abbiamo trattenuto il fiato quando il suo braccio ha attraversato il cespuglio fino a toccarci. Guardavo impaurito la sua mano finché il palmo si è appoggiato tra i miei capelli, un palmo sufficientemente mostruoso da afferrare la mia testa come una noce di cocco. E poi… mi ha sorriso! Mi ha carezzato i capelli e mi ha sorriso, per poi tornare a giocare con la pioggia. Quando mi sono ripreso gli altri erano già scappati, quei fifoni. Io, l’ultimo eroe, sono tornato a cercarli, orgoglioso. Avevo affrontato il mostro, ero stato l’unico che era rimasto fino alla fine, ma già mentre correvo giù a perdifiato, con ancora un brivido di paura nelle ossa, sapevo che quel sorriso me lo sarei ricordato per tutta la vita.
Questo posto è magico, oggi come allora. È il luogo dove la città vive di fantasia, dove i bambini possono diventare eroi, ma è anche uno degli ultimi posti dove è ancora possibile guardare negli occhi il mostro che ciascuno ha in sé, per ritrovare quel piccolo spazio sospeso tra paure e bellezza.
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