Il matrimonio di Strindberg secondo le idee di Ronconi

Stasera a Mittelfest va in scena “Danza macabra”, protagonista Adriana Asti con il marito Giorgio Ferrara, nel nuovo allestimento del Festival di Spoleto
Di Roberto Canziani

CIVIDALE. A sostenere che le donne sono creature del diavolo c'è una lunga e antica tradizione. Oggi possiamo considerarla comica, un motivo tipico, che ricorre in canzoni, detti e proverbi popolari. Una ragione di sorriso, se non fosse che in altri secoli ha segnato irrevocabilmente il ruolo e il destino di metà della popolazione della pianeta.

Quel legame diabolico, l'idea di una creatura vampiro che logora, svuota e annienta spiritualmente il maschio, è però qualcosa che diventa ossessione, mania e persecuzione nella mente di August Strindberg, lo scrittore svedese vissuto a cavallo tra 800 e 900.

L'aggettivo che più spesso accompagna il nome del drammaturgo di Stoccolma è “misogino”. Se non vuol dire che le odiava proprio, le donne, la parola sta sicuramente a significare un rapporto assai tormentato con l'altro sesso. Non basta la raccolta di novelle “Sposarsi”, con i puntigliosi attacchi al genere femminile e al matrimonio. Non basta il volume che fin dal titolo espone netta la sua opinione: “L'inferiorità spirituale della donna rispetto all'uomo”. E non è ancora sufficiente la trama di quel suo dramma in cui una moglie manda ai pazzi il marito, insistendo nel suggerire a mezza voce che non è lui il padre della loro figlia. Bisogna proprio dare un'occhiata ai tormentatissimi rapporti che Strindberg ebbe con le quattro donne della sua vita per capire perché mai anche lui - come “Il Padre” del dramma omonimo – sia finito col diventare pazzo, perso tra di studi di alchimia e occultismo, lo sguardo opaco e allucinato dei visionari folli.

Scritto un decennio prima, a cavallo dei secoli, in quel 1900 tondo tondo che si lasciava dietro la sudditanza millenaria del genere femminile, per dare sempre più spazio al movimento di suffragette che si battevano per la parità, “Danza macabra” (o “Danza di morte” in altre traduzioni) è il lavoro teatrale di Strindberg, dove più chiaramente si svela l'idea del matrimonio come gabbia infernale. L'inferno della lotta tra i sessi, cent'anni anni fa.

Un testo quindi, niente affatto attuale. Ma straordinariamente teatrale. Perché oramai da un secolo ha dato occasione a grandi attori - donne di forte temperamento, uomini di navigata perfidia da palcoscenico - di tirare fuori il meglio o, a seconda dei punti di vista, il peggio, che hanno dentro.

Una nuova edizione di “Danza macabra”, l'allestimento più recente del Festival di Spoleto, coproduttore insieme a Mittelfest e Stabile della Toscana, va in scena questa sera, fra gli appuntamenti del festival di Cividale (Teatro Ristori, ore 20.30).

Non solo c'è l'occasione di veder combattere in scena due interpreti legati da vincolo di coppia anche nella vita. Lei è Adriana Asti, già musa di registi che hanno fatto la storia recente del teatro e del cinema. Lui è il consorte Giorgio Ferrara, il quale, al ruolo di direttore del Festival umbro, aggiunge anche quello di attore, certamente a suo modo.

Valore aggiunto, chiave di volta complessiva, è la regia di Luca Ronconi che, oramai oltre gli ottant'anni, non ha perso un solo grammo del suo gusto per il divertimento e di quella salutare cattiveria che toglie la polvere dai vecchi capolavori del teatro borghese, aiutandoli a splendere sotto la luce di un riflettore nuovo.

“Danza macabra” – deve aver ha pensato Ronconi – si può affrontare in due modi. Il primo, seguendo un'interpretazione di maniera, prevede attori che si prendano molto sul serio e si sdraino sul lettino dello psicanalista per dare voce ai pensieri più cupi. Il secondo, beh, il secondo è un modo tipicamente ronconiano. Che corre sul filo del rasoio dell'ironia. Che fa della derisione un bisturi affondato nel testo. Che risolve teatralmente, con i continui movimenti di scena, caratteristici degli allestimenti di Ronconi, tutto ciò che per il vecchio Strindberg era studio della psicologia di coppia.

E dunque il regista, ben lontano dal seguire la strada della tradizione, ne fa qualcosa che assomiglia a un fumetto nero, a un romanzo di vampiri, a una nuova puntata della famiglia Addams, dove i due protagonisti non si risparmiano i morsi sul collo. Neanche su quello del “terzo incomodo” (è l'attore Giovanni Crippa) che penetra nel rapporto per vivacizzare il tran tran coniugale.

Neri, scuri, tombali, le scene, gli arredamenti (di Marco Rossi), gli abbigliamenti (di Maurizio Galante), che Ronconi ha scelto per illustrare il macabro che avvolge quest'isola dei mari del Nord, con il suo solitario faro.

Vampireschi e fantasmatici i comportamenti e pronunciamenti (nella nuova traduzione di Roberto Alonge) con cui i tre si intrattengono ed intrattengono il pubblico per i cento minuti che dura il loro match.

«Mi piacerebbe che gli spettatori uscissero da teatro domandandosi perché hanno riso, mentre l'argomento sembrerebbe drammatico. Mi piacerebbe lasciar loro questo dubbio, far loro riscoprire il divertimento, l'ironia» dice perfido Ronconi. Ed è una di quelle volte, in cui la perfidia di dimostra una virtù.

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