Il mondo tascabile di Emilio Rigatti chiamato Ichnusa

Il nuovo libro del professore giramondo esce domani pubblicato da Ediciclo
Di Emilio Rigatti

Emilio Rigatti, il professore-ciclista-scrittore, sbarca a Ichnusa (così era chiamata una volta la Sardegna) con il dolore dentro di un matrimonio finito male. Dalla sella della sua bici scopre un continente tascabile irto di nuraghe, passi, coste. Lascia lì un pezzo del suo cuore, come racconta nel nuovo libro “Ichnusa”, pubblicato da Ediciclo, che arriva nelle librerie domani. Pubblichiamo l’inizio per gentile concessione.

di EMILIO RIGATTI

È facile dire Sardegna. Raccontarla è un'altra cosa, specialmente se la incontri a sessant'anni e ne resti intronato come per lo scoppio di una bomba, o per un fulmine che si scarica a trenta metri da te. E perché raccontarla se l'hanno già raccontata i sardi d'eccellenza?

“Paese d'ombre” di Dessì e “Il giorno del giudizio” di Satta - letti durante questo viaggio - adesso li annovero tra i miei libri preferiti. Stanno nello scaffale vicino al letto con García Márquez, Cabrè, Conrad, Melville, Mann, Cervantes e tanti, troppi altri. Troppi, ma mai abbastanza.

Per quanto riguarda questo viaggio, è da decenni che covavo il desiderio di farlo. È successo solo ora, ma va bene così. Gli innamoramenti nella maturità tengono sveglio lo spirito vitale, l'eros che trascina la vita in avanti, la voglia di strade, la speranza di trovare una donna accendono di luce in trasparenza le bollicine che rendono frizzante l'instabilità del procedere verso il chissà dove.

Ricordo una frase di Giuseppe Dessì: «La Sardegna è un luogo di permanenza e non di viaggio». Io ci sono rimasto solamente un mese. Ma mi è bastato. Anzi: no, non mi è bastato. O tutt'e due le cose assieme. Mi è bastato per restare impaniato nel vischio della sua vegetazione mediterranea, della sua geologia impudicamente esposta ai venti, dei suoi errori d'orografia, dei sardi che conservano sia la religione dell'ospitalità antica, sia uno spirito ribelle, anarchico, antisavoiardo, nonostante i loro paesi siano tappezzati di vie intitolate a Roma, ai Savoia, a La Marmora, ai luoghi della Grande Guerra, a tutti quegli Altri con la maiuscola che sono venuti qui per l'argento, il legname o per costruirci le ville con la piscina.

Ovunque ho trovato cartelli stradali ridotti a colabrodo dalle pallottole e porte aperte al viaggiatore, allo straniero. E cos'è che non mi è bastato? Non mi è bastato un mese di pedale su e giù per le sue groppe arse e scabrose, non mi è bastato questo passaggio breve che racconto in queste pagine. Avrei voluto di più. Per ogni paese che attraversavo, per ogni luogo archeologico o naturalistico che visitavo, mi sentivo ripetere: ma lo sai che a cinque chilometri c'è una cascata? Una stupenda domus de janas? Una chiesa del Duecento? Un panorama che non te lo immagini? Per ogni cosa vista ce ne sono cento non viste.

Ma questo vale per tutti i viaggi. Il racconto di viaggio è un'intuizione, l'istantanea di un momento, l'abbaglio di un forestiero ammalato di pellegrinaggio. Non è una guida turistica. Ma è una visione importante, secondo me, che va considerata anche nelle distorsioni che il breve tempo del transito odeporico implica.

Del resto, se ci pensiamo bene, tutto si distorce, basta far avanzare o arretrare lo zoom della macchina fotografica - il cosiddetto "obiettivo" - e la visione cambia. Ci sono foto che vale la pena guardare, altre meno, a prescindere dall'obiettivo e anche dall'eccellenza dell'apparecchio. Io provo a scattare questa serie di immagini avendo il cuore come obiettivo fotografico. Ogni cuore, come ogni obiettivo, ha una sua lunghezza focale. È obiettivo, dunque, solo rispetto a se stesso. L'obiettivo assoluto, per fortuna, non esiste, così come non esiste una Sardegna assoluta. L'immagine appartiene a chi la guarda, dice Salgado, e il viaggio appartiene a chi lo fa. La scrittrice sarda Michela Murgia dice che tutto diventa unico se sei tu l'unico che lo vede. E sarebbe sempre così, se il viaggio lo costruissimo, lo impastassimo, lo cucinassimo noi, invece di comprarlo ai supermercati delle agenzie.

Questo libro è anche una sorta di testimonianza di affetto per i sardi che mi hanno sempre fatto sentire ospite e straniero allo stesso tempo. Sentirsi ospite è gratificante, ma lo è anche sentirsi stranieri, sentirsi altrove. Una volta essere straniero o incontrare uno straniero era di per sé un'avventura. Una delle prime ragazze di cui mi sono innamorato si chiamava Sybille ed era francese. Mi piaceva il suo accento diverso, mi piaceva il nome della città dove, purtroppo, alla fine delle vacanze estive sarebbe tornata: Bordeaux, che per me allora era semplicemente "Bordò". Mi chiedo se non è stato anche per lei che ho imparato il francese. In un mondo dove basta entrare in un'agenzia di viaggi e, da domani, sarai a Rio o in Birmania con un gruppo organizzato, dove troverai anche il caffè italiano fatto bene e non sentirai nessuno shock culturale, sentirsi stranieri e ospiti è una ricchezza. Oggi la differenza di potenziale tra i popoli è rimasta vittima di un'accelerazione entropica che ne smussa le particolarità, anteponendo una fatale attrazione per ciò che è omologante e una repulsione per l'originalità, la differenza. Nuotiamo tutti nell'inglese digitale degli smartphone o, altrimenti, siamo infastiditi dalle orde di lingue schiamazzate da una babele di turisti maleducati: non è questo il concetto di straniero a cui sono affezionato. Essere straniero oggi è una condizione privilegiata, un bene di lusso e, anche se non capisco il sardo, l'accento dell'isola che prepotentemente glassa l'italiano di là mi è gradito all'orecchio. È un accento che quasi impone alla mimica di adattarsi a esso, di servirlo con gesti e atteggiamenti che gli si intonino. Per aumentare il mio coefficiente di "essere straniero" viaggio senza smartphone, così sarò costretto a chiedere informazioni a delle persone e non a un touch screen.

Farò foto vere, con una reflex e non con un cellulare, e mi piace l'idea di non sentirmi uno dei milioni di selfie che vorticano nella rete. Sembrano tutti confluire in una sola non-immagine.

In Sardegna ci voglio tornare tante volte. E, non servirebbe dirlo, la raccomando volentieri a tutti gli amici più cari.

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