Il museo di Gorizia e il fascino delle divise della Belle Époque

La vigilia della guerra fa moda. Con i suoi soldati-pavoni, dalle uniformi cromaticamente ardite, gli alamari e i bottoni scintillanti, i decori preziosi che testimoniano il grado del militare e...
Di Arianna Boria
Bumbaca Gorizia 12.09.2014 Mostra Uniformi Santa Chiara Fotografia di Pierluigi Bumbaca
Bumbaca Gorizia 12.09.2014 Mostra Uniformi Santa Chiara Fotografia di Pierluigi Bumbaca

La vigilia della guerra fa moda. Con i suoi soldati-pavoni, dalle uniformi cromaticamente ardite, gli alamari e i bottoni scintillanti, i decori preziosi che testimoniano il grado del militare e accarezzano la vanità dell’uomo. La Belle Époque in divisa è preziosa quanto quella delle signore, adatta al passeggio domenicale con la propria dama al braccio. Sono gli eserciti colorati, raffinati e vanesi, che sfilano nel crepuscolo di un’epoca e nell’illusione di guerre cavalleresche e di breve durata, sull’orlo di un abisso dentro il quale ci saranno soltanto mimetiche e morti. Non più soldati a tinte forti come quelli di legno, non più divise haute couture per scontri frontali, dove gli abbinamenti shock – color block, diremmo oggi – servono per riconoscersi e intimidirsi a vicenda, ma uomini equipaggiati per confondersi nel fango, nel fumo e nelle trincee, per non diventare bersagli dei nuovi e più precisi armamenti.

La mostra allestita ai Musei provinciali di Gorizia, in collaborazione con l’associazione Isonzo-Gruppo di ricerca storica, visitabile fino al 25 gennaio 2015, racconta l’ultimo sogno di eleganza e raffinatezza maschile. Trenta uniformi, di cui ventinove relative ai diversi eserciti europei destinati a fronteggiarsi nel conflitto mondiale e una, che chiude il percorso espositivo, della Marina statunitense. Si tratta di divise pre-belliche, di un periodo compreso tra il 1890 e il 1914, complete di accessori, in alcuni casi vere e proprie chicche da collezionisti. L’arte della guerra stava cambiando, ma i segnali già visibili rimandavano a scenari lontani, allo scontro anglo-boero o a quello russo-giapponese, e parevano ancora dilazionabili, esorcizzabili.

Il concetto di uniforme, come cominciò a delinearsi nella seconda metà del ’600, si basava sulla necessità dei comandanti di distinguere le proprie truppe. I militari dovevano portare abiti, contrassegni e copricapi che li rendessero riconoscibili a colpo d’occhio, senza impedirne i movimenti. Nell’età napoleonica i colori sgargianti servivano a “bucare” lo spesso fumo prodotto dalle esplosioni dovute alla combustione della polvere da sparo e solo quando quest’inconveniente bellico venne eliminato anche la “palette” cominciò a scolorire.

Realpolitik da guardaroba è quella per le forze armate tedesche di fine secolo. La fusione di tanti antichi stati in un solo Reich, operata da Bismarck in forma di riconoscimento della superiorità territoriale e militare prussiana, era stata una sottomissione realisticamente accettata dai rispettivi principi. Ma la “prussianizzazione” forzata sarebbe stato un grave errore e avrebbe acuito, per esempio, l’insofferenza di un grande stato ex-sovrano come la Baviera. La struttura federale dell’Impero fu così rispettata, proprio a partire dalla “esteriorità” di insegne, divise e distintivi, che ricordavano a ciascuno la propria identità regionale. Una macchina bellica patchwork: i generali, gli ufficiali e i soldati bavaresi indossavano una tunica celeste anzichè azzurro scuro come tutti gli altri, salvo i generali del Braunschweig che la portavano nera, a ricordo della tinta preferita dal loro duca al tempo di Napoleone. I bavaresi, inoltre, enfatizzavano l’identità negli accessori: per dieci anni scelsero l’elmo a cimiero in tutte le armi, rifiutando il Pickelhaube, l’elmo chiodato.

La Belle Èpoque in divisa è l’ultimo giro di ballo prima di un cambiamento epocale. Per la moda, una ricorrente fonte di ispirazione. Così alamari, bottoni e cordoni ci restano nell’armadio, dalla parte delle donne.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo