Il regista Matteo Rovere a ShorTS «Romolo e Remo ai tempi nostri»

trieste
Dodici anni fa Matteo Rovere arrivava a Trieste per portare in concorso a ShorTS–International Film Festival il suo cortometraggio “Homo Homini Lupus”. Da allora molto è successo: ha girato tre film, tra i quali il bellissimo e rivoluzionario “Veloce come il vento”, vinto un Nastro d’Argento come produttore di “Smetto quando voglio” e prodotto una ventina di altri progetti tra cinema e televisione. Per questo il festival ha deciso di omaggiarlo con il Premio Cinema del Presente, che gli sarà consegnato domani alle 21.30 in Piazza Verdi, riconoscendogli una qualità cruciale: equilibrare, come pochi altri colleghi, autorialità e consapevolezza del mercato. Non a caso il suo nuovo, segretissimo film “Il primo re”, rivisitazione della storia di Romolo e Remo interpretati da Alessandro Borghi e Alessio Lapice, è una grossa produzione internazionale «molto diversa da quello che ho fatto in passato», anticipa il regista. «Nasce da un’idea mia e degli sceneggiatori Filippo Gravino e Francesca Manieri: quella di due fratelli che fanno di tutto per proteggersi, ma in un contesto difficile e avverso, attualizzando il sentimento che c’è dietro il mito di Romolo e Remo».
Rovere, cosa vuol dire oggi essere un cineasta del presente?
«Il cinema in Italia sta vivendo un periodo di mutazione dell’audience di riferimento e anche della modalità di racconto della contemporaneità. Ma in tutti i momenti di crisi, quando le certezze si riducono e i numeri diminuiscono, si genera quel sentimento virtuoso che porta le persone a prendersi più rischi: è proprio lì che arrivano le idee».
Quali?
«Il ritorno al genere, la sceneggiatura come momento centrale del prodotto cinematografico, il superamento della visone unica del regista. A differenza della tv, il cinema ha il compito di innovare, di destabilizzare, di sedurre lo spettatore con sentimenti che altrove non si trovano. Il cinema del presente, per me, è allora una nuova forma di racconto che non tema il confronto con la televisione ma viaggi verso orizzonti nuovi».
Un esempio di questa filosofia è “Veloce come il vento”, il suo film del 2016 su una famiglia di preparatori d’auto e piloti di corse Gran Turismo, che pare ispirarsi al cinema action europeo, da Luc Besson alla saga di “Taxxi”. Com’è nato?
«Come il protagonista Loris De Martino, interpretato da Stefano Accorsi, ho pensato che era importante saper prendere qualche rischio. Ho pensato al genere del “car race movie”, cioè un film che ha al centro le corse delle macchine, ma calandolo nella nostra contemporaneità. È un film molto italiano, racconta di rapporti famigliari, in un’atmosfera che intrattiene con l’epicità della terra dei motori, cioè la Romagna e il nord delle Marche».
Da produttore, vede davvero un ritorno del cinema di genere nell’industria italiana?
«Non c’è ancora un ritorno pieno al genere, pur nel tentativo profondo di variare il contenuto delle nostre pellicole. Film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” e “Smetto quando voglio” hanno avuto un grande successo, però poi non ne sono arrivati altri con lo stesso tasso di innovazione e ascolto da parte del pubblico. È come se ci fosse un po’ di paura dei produttori tradizionali: si fatica a fare quel passo di coraggio in più per dare continuità al rinnovamento». —
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