Il segreto di Winckelmann che nessun giudice volle mai andare a cercare

di NICO NALDINI Quarant’anni fa lo scrittore friulano Elio Bartolini affrontò il compito di trascrivere le sedute del processo contro Francesco Arcangeli, cuoco disoccupato, reo confesso della morte...
Di Nico Naldini

di NICO NALDINI

Quarant’anni fa lo scrittore friulano Elio Bartolini affrontò il compito di trascrivere le sedute del processo contro Francesco Arcangeli, cuoco disoccupato, reo confesso della morte di Johann Joachim Winckelmann.

Era il 1768 e da Trieste, dove si svolse il processo, la notizia infiammò ogni angolo della vita culturale dell’epoca per rimbalzare nei secoli successivi. Fino ad allora una trentina di libri aveva tentato di spiegarne i retroscena, ma si erano sempre basati su trascrizioni dei verbali pieni di inesattezze; da qui il lavoro di Bartolini che si avvalse di una nota del più conosciuto studioso vivente in Italia, Mario Praz.

L’interesse per questo atrocissimo “fait divers” non era nella figura del sospettato, un individuo rozzo, incolto, che aveva agito per rapina, ma nella figura della vittima, una delle più influenti dell’epoca per lo studio e la riscoperta dell’arte antica, il grande Johann Joachim Winckelmann.

Si era fermato a Trieste di ritorno da Vienna, dove era stato colmato di onori e di medaglie d’oro dalla stessa Maria Teresa. A Trieste aspettava di imbarcarsi su un veliero che lo riportasse a Roma.

L’attesa si prolungò e Winckelmann si adattò presto a chiacchierare e far amicizia con il cuoco, che risiedeva nella stessa locanda. Attratto dalle medaglie, immaginando altri tesori tenuti nascosti, il cuoco ospite nella stanza di Winckelmann prima tentò di sofficarlo, poi lo trafisse con un coltello. Forse inorridito dal suo stesso crimine si dette alla fuga e per alcuni giorni vagò tentando di sconfinare.

In realtà, nascosto tra le medaglie, l’archeologo conservava un messaggio segreto da consegnare in Vaticano sulla questione, molto dibattuta, della soppressione dell’Ordine dei Gesuiti. Ma di questo documento, al processo non si parlò. Si disse, invece, quanto era stato efferato l’assassinio finchè si fece strada il sospetto che il suo movente fosse da attribuire alle inclinazioni omosessuali del Winckelmann: qualcuno ricordò episodi compromettenti, ma tale era l’abominio per quelle inclinazioni che si preferì seppellirle nel segreto.

C’era un altro ostacolo ad affrontare l’argomento: come era possibile che il grande esteta si fosse sentito attratto da un individuo rozzo e incolto come l’Arcangeli, con i segni del vaiolo sul viso? E tuttavia un magistrato incaricato del processo non rinunciò a quell’ipotesi formulata nel suo intimo: forse egli coltivava, accanto alla vita dello spirito quello del corpo votata al sordido, al furtivo. Comportamenti che reclamavano una totale espiazione sul rogo.

L’omofobia attuale non comporta più di farsi bruciare vivi e, tuttavia, permane sotto diverse subdole forme.

La storia e i retroscena ritornano nel libro “Il delitto Winckelmann” (Edito da Metamorfosi, pagg. 152, euro 14) di Paola Bonifacio, nota storica dell’arte tra Ottocento e Novecento, direttrice di un importante museo a Oderzo dedicato a Alberto Martini.

Dopo aver collocato il personaggio di Winckelmann al centro del suo tempo e all’impulso che lui stesso aveva dato a quell’epoca con i suoi studi, l’autrice mette in luce come vita e cultura si intreccino; e qui, oltre allo storico, era necessaria la sensibilità di un romanziere, che senza nulla inventare trovi nel suo pesonaggio le più segrete dimensioni.

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