Il viaggio di Ferracuti nell’epica del lavoro che in Italia non c’è più

di ROBERTO CARNERO Prende le mosse da una suggestione pasoliniana l'ultimo libro di Angelo Ferracuti, “Addio” (Chiarelettere, pagg. 250, euro 16,60), e precisamente da una frase pronunciata dallo...
Di Roberto Carnero

di ROBERTO CARNERO

Prende le mosse da una suggestione pasoliniana l'ultimo libro di Angelo Ferracuti, “Addio” (Chiarelettere, pagg. 250, euro 16,60), e precisamente da una frase pronunciata dallo scrittore friulano in un'intervista a Furio Colombo il giorno prima di essere assassinato nella notte del 1° novembre 1975: «Smettete di parlarmi del mare mentre siamo in montagna». E spiegava al suo intervistatore: «Hai mai visto quelle marionette che fanno ridere i bambini perché hanno il capo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta? Mi pare che Totò riuscisse in un trucco del genere. Ecco, io vedo così la bella truppa di intellettuali, sociologi, esperti e giornalisti delle intenzioni più nobili, le cose succedono qui e la testa guarda di là».

A distanza di quarant'anni Ferracuti ha trovato quelle parole ancora attualissime, soprattutto in riferimento ai suoi colleghi scrittori. Di cosa parla, che cosa tratta la narrativa italiana di oggi? Spesso tematiche giovanilistiche fuori tempo massimo o elucubrazioni soggettivistiche in cui gli autori finiscono per non alzare mai lo sguardo dal proprio ombelico. Forse, posta così, la diagnosi è un po' tranchant, ma non si può negare che gran parte delle nostre patrie lettere oggi soffrano di un certo strabismo rispetto ai problemi reali del Paese. Come, tra i primi, quello del lavoro, delle sue trasformazioni, della sua mancanza, della perdita di identità collettiva connessa alla sua crisi. Ed è perciò su questi temi che Angelo Ferracuti ha deciso di incentrare il suo libro, un avvincente reportage narrativo in una delle regioni d'Italia in cui i cambiamenti, in tale ambito, negli ultimi anni sono stati più evidenti ed emblematici: la Sardegna, e in particolare il Sulcis-Iglesiente.

Per lungo tempo terra di miniere e di una vera e propria “epica operaia”, ora su 130 mila abitanti ha 30 mila disoccupati e 40 mila pensionati: fatti due conti, si capisce che il suo sistema sociale è in profonda sofferenza. Questo perché il modello di organizzazione produttiva novecentesco «è ormai ossidato - scrive l'autore - come il ferro dei castelli degli ascensori abbandonati di Carbonia». Ferracuti ha compiuto un viaggio in questi luoghi, che descrive dando la parola, oltre che alle proprie impressioni, agli abitanti della regione, una popolazione vinta, povera, malata (la silicosi, contratta in seguito alle attività estrattive, è una delle malattie più diffuse nella zona), ma mai piegata, perché a una cosa essa non ha mai rinunciato: la propria dignità.

Spiega lo scrittore marchigiano: «Chi vorrebbe liquidare tutta la storia delle miniere e di questa classe operaia rocciosa, definendola anacronistica, deve tenere conto che per molti di loro la miniera è stata un'esperienza che andava oltre un lavoro normale, il dazio che si paga alla sopravvivenza, ma una specie di misteriosa avventura quotidiana che li strappava alla routine, alla vita banale e noiosa di tutti i giorni, rendendo quello che facevano memorabile come nei romanzi di Hermann Melville, Jules Verne o Joseph Conrad». Non mancano infatti, nello sguardo di Ferracuti, le suggestioni letterarie e artistiche, che fanno qua e là capolino: da un romanzo come Germinale di Émile Zola a un quadro come “I mangiatori di patate” di Vincent van Gogh. Ma la suggestione più forte è quella della realtà stessa oggetto del racconto, restituita in presa diretta, all'insegna di uno sguardo che spesso di fa denuncia.

In ciò risiede - qualità non ultima di questo libro - una dimensione civile, di “impegno”, diremmo, se il vocabolo non rischiasse di apparire un po' retrò: «Il paradosso è che in questo racconto collettivo viene fuori quasi la nostalgia per quel passato che è stato darwiniana lotta per la sopravvivenza ma anche emancipazione politica, rispetto a un domani sempre più incerto, segnato dalla fine del lavoro e del futuro, soprattutto per le nuove generazioni».

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