In 60mila a Gorizia per gli “Schiavi” e le catene di oggi

di PIETRO SPIRITO
inviato a GORIZIA
Oltre 60mila presenze (in linea con lo scorso anno), 300 ospiti, 150 appuntamenti, 20mila visualizzazioni per gli eventi in streaming, 80mila visite sul sito, 30mila su Facebook, 72mila su Twitter con una crescita dei follower del 60 per cento. Sono questi i numeri della dodicesima edizione di èStoria, il festival di Gorizia quest’anno tutto dedicato al tema degli “Schiavi”, che ha chiuso i battenti ieri dopo tre giorni di convegni, presentazioni, dialoghi, mostre, proiezioni di film, gite con èStoriabus, recite e altre iniziative. Numeri da record, dunque, a fronte dei quali, però, l’ideatore e direttore del festival, Adriano Ossola, annuncia un deciso cambio di rotta: «Siamo molto contenti, il pubblico è sempre più attento e partecipe - dice Ossola - ma credo sia giunto il momento di cambiare: dal prossimo anno ripenseremo alcuni formati, rifletteremo anche sui temi da individuare, forse ci sarà una riduzione nel numero di iniziative». Non è tanto questione di budget, precisa Ossola, «perché con 300mila euro si fanno molte cose», quanto piuttosto una messa a punto nata dalla «discrepanza tra un festival che continua a crescere e un assetto che va rivisto». Intanto vanno in archivio gli “Schiavi”. Schiavi nella storia, e schiavi nel presente, perché, come hanno dimostrato i tanti incontri sul tema, le forme di schiavitù del terzo millennio non sono meno subdole o violente di quelle del passato. Dalle schiavitù dei sistemi economici e sociali alla violazione dei diritti umani le catene oggi esistono ancora eccome. Ed erano catene vere e proprie quelle che ha mostrato al pubblico Grégoire Ahongbonon, il “Basaglia nero”, l’uomo che da trent’anni combatte e opera per curare e salvare i malati di mente nel continente africano, dove chi è affetto da disagio mentale è ignorato o letteralmente incatenato in luoghi e situazioni disumane. Le catene che Grégoire ha mostrato alla fine dell’incontro a lui dedicato - condotto da Massimo Cirri e con la partecipazione di Marco Bertoli, responsabile del Centro di salute mentale di Latisana - erano quelle che hanno tenuto legato a un muro un uomo per ben sette anni, prima che fosse liberato dallo stesso Grégoire. La cui storia è emblematica di quali e quante siano le schiavitù della nostra epoca. Grégoire Ahongbonon, che a Gorizia è di casa, essendo la rivoluzione basagliana, che da qui è partita, il suo modello di riferimento, non è, ha detto subito, «né un medico, né un prete e nemmeno un guaritore». La sua parabola inizia negli anni Settanta, quando, nella Repubblica del Benin, dov’è nato, avvia un redditizio lavoro come gommista. «Era un buon lavoro - ha raccontato Grégoire - e in poco tempo mi sono arricchito: avevo un’officina, quattro taxi, e a 23 anni ero uno dei pochi giovani del mio Paese ad avere un’auto tutta mia; pensavo solo a fare soldi». Poi, come a volte accade nei percorsi di rinascita, «a un certo punto non so bene come ho perso tutto, precipitando in una vita miserabile, fino a un passo dal suicidio». Finché l’incontro con un padre missionario e un pellegrinaggio a Gerusalemme gli hanno fatto riscoprire la fede e la necessità di «portare il mio contributo alla Chiesa». Così il gommista del Benin è entrato in contatto con le realtà degli ammalati negli ospedali africani, e in particolare con quella dei malati di mente. «In Africa - ha raccontato - non c’è assistenza sociale, i matti vagano per le strade delle città nel più assoluto abbandono, o sono segregati delle famiglie nei villaggi». Grégoire si è trovato di fronte a situazioni allucinanti: uomini e donne, a volte giovanissimi, tenuti incatenati per anni a un albero, o in una capanna, lasciati morire di stenti oppure affamati e picchiati «per fare uscire il demonio dal loro corpo». «In un villaggio - ha raccontato - abbiamo trovato un giovane tenuto crocefisso al suolo dai genitori, era coperto di piaghe e di vermi; e in un altro villaggio ho visto una donna incatenata a un albero da 36 anni, non riusciva neanche più a stare in piedi».
Da oltre trent’anni il “Basaglia nero” è impegnato con la sua associazione Saint Camille De Lillis nei Paesi dell’Africa occidentale e a nord della Costa d’ Avorio per assistere i malati di mente. Grazie al suo lavoro sono sorti diversi centri di accoglienza e due ospedali. Ma il suo modello resta la figura di Basaglia «un uomo che aveva capito che bisogna guardare prima la persona e poi la malattia, e che a differenza di tanti non aveva paura dei matti».
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