In “Difetti di famiglia” Jole Zanetti scava nei tormenti di una donna

la recensione
La vita di Eva è attaccata a un pezzetto di cielo. “Forse - dice al suo bambino - la sola cosa bella e gratificante di cui possiamo disporre”. Ma ora in quella villetta di periferia in cui sperava di potersi inventare una vita serena, il cielo non lo vede quasi più. Intorno casermoni abitati solo la sera, sul tavolo una tovaglia lisa e macchiata che non ha più voglia di lavare, un marito che le vuole bene, ma di lei dubita. Eva, del resto, sa di non averlo mai amato. Anni di convivenza tranquilla hanno spento nel suo cuore anche la gratitudine, “che livella come lava le asperità della vita” e ha cancellato ogni volo.
È una donna danneggiata, Eva, come un po’ tutti i personaggi di cui Jole Zanetti ci racconta con voce sommessa, con un linguaggio che Claudio Magris ha definito, nella prefazione al suo primo romanzo “Lacune”, inesorabile e trasparente. Un linguaggio di una semplicità disarmante anche in questo “Difetti di famiglia” (Garzanti, 18 euro). Solo centosei pagine di una densità emozionante. Perché Zanetti narra fatti terribili nella loro assoluta essenzialità.
Eva una sera come tante non vuole coricarsi con suo marito. La loro intimità è una routine con cui forse pensa di pagare l’intensità di un rapporto proibito con il professore che le ha insegnato il latino e il suo corpo. Marco l’ha appena rimproverata, ha fatto diventare Lorenzo, il figlio, il suo bambino, “una canaglia”. E allora lei lo inganna, finge di aspettare una telefonata ed esce invece a cercare le sigarette che lui non vuole fumi. La notte ne inghiotte l’infanzia senza madre, l’abbandono del professore, la disapprovazione della suocera. Sono altri a picchiarla, ma è il marito ad ucciderla, dopo averla a lungo cercata per nascondere qualsiasi vergogna di cui, ne è convinto, lei si sia macchiata.
“Il passato non si distrugge e non si dimentica mai” scrive Zanetti altrove e con questo passato non detto cresce Lorenzo. C’è un’inchiesta che non porta a nulla. C’è il silenzio che lo confonde, poi l’allontanamento dal padre, il collegio e anni dopo il ritorno alla ricerca di Sandro, il suo unico amico d’infanzia, della sua bella famiglia che ricorda come un’ancora. Ma anche lì tutto è cambiato. Tutto si è frantumato. Il padre se n’è andato, la sorella più grande è scomparsa, la piccola ha un bimbo nato per violenza, Sandro fa una brutta vita e anche la madre, Adele, è invecchiata, malata, spenta. Un fardello di dolori da cui viene risucchiato, in cui si attacca a un brandello di cielo sperando in un nuovo amore e in cui, alla fine, trova la vera storia di sua madre e un finale che non è un finale. Come sempre.
Jole Zanetti è nata ed è cresciuta a Trieste, ma poi per molto tempo ha vissuto in Africa, ha fatto volontariato nell’assistenza sanitaria e ha certamente incontrato molti dolori. Ritornata città natale ha incominciato a scrivere, anche se, ha detto in una intervista al Piccolo di molti anni fa, avrebbe forse invece voluto, da grande, fare la pittrice. Quelle che racconta, con pennellate secche che non hanno bisogno di colore, che racchiudono nel bianco e nero dell’inchiostro un universo di sfumature, sono storie che per la loro sobrietà hanno un respiro amplissimo. Lo stupro, la necessità di castigarsi degradandosi, l’ostilità immobile, l’amaro ottundimento che ci coglie in quei momenti e in quei luoghi in cui tutto si ferma, l’alterazione della memoria e quell’attimo che spezza la regolarità della vita, sono da lei raccontati con voce pacata, senza superfluo, con il lirismo della semplicità.
Si sente il profondo rapporto di intimità tra la scrittrice e la sua storia, si sente la sua lotta con la crudezza della vita. Proprio la sua volontà di non essere accattivante rende le sue parole preziose e ci permette di misurarci liberi con la terribile attrazione dei segreti taciuti. Fino a un attimo prima che prendano voce. —
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