Jacopo Quadri: «Il montaggio, arte poco conosciuta ma cruciale»



Il montaggio è l’arte del cinema forse meno conosciuta, eppure cruciale: un lavoro sotterraneo, fatto di concerto col regista, che determina la scansione della narrazione e il suo senso. Un mestiere delicatissimo che oggi verrà raccontato al Trieste Film Festival da Jacopo Quadri, montatore dei film di Mario Martone (compreso l’ultimo, “Capri-Revolution”), Paolo Virzì, Bernardo Bertolucci e dei pluripremiati documentari di Gianfranco Rosi, da “Sacro GRA” a “Fuocoammare”. La sua masterclass, alle 18 al Café Rossetti, seguirà la proiezione di “Gli indocili” (alle 16.15, Ambasciatori), il documentario della triestina Ana Shametaj sulla speciale scuola di teatro tra i boschi inventata dal regista Cesare Ronconi e dalla poetessa Mariangela Gualtieri, che Quadri ha prodotto e montato. Tra i dodici protagonisti di “Gli indocili” c’è anche sua figlia, l’attrice Ondina Quadri, che lo accompagna a Trieste. «È un esempio di come montare un documentario possa essere più complesso rispetto a un film di finzione: non avendo sceneggiatura, la struttura si crea al montaggio».

Quadri, come spiegherà al pubblico un mestiere tanto complesso?

«Teoricamente il montaggio è complicato e astratto, ma in realtà è un lavoro molto pratico: parlerò di come si iniziano a scegliere le inquadrature, del rapporto col regista e la sceneggiatura. E mostrerò sequenze di film che ho montato, come “Boatman”, il primo documentario di Rosi, “The Dreamers” di Bertolucci e “Garage Olimpo” di Marco Bechis. E poi anche un pezzo del documentario che ho diretto, “Lorello e Brunello”».

Rosi, Bertolucci e Virzì: come ha lavorato con ognuno di loro?

«La difficoltà del montatore non è tanto adattarsi a diversi generi, quanto a diversi registi, riuscire a cambiare pelle pur rimanendo se stessi. Virzì e Rosi sono miei coetanei e siamo cresciuti assieme. Il primo progetto con Virzì è stato nel 1997, “Ovosodo”, film scanzonato e giovane, il primo che ho montato col computer: prima lavoravamo solo in pellicola. Bertolucci invece l’ho incontrato nel 1998 con “L’assedio” ed era già un grande maestro. Sentivo una grande differenza intellettuale e culturale, mi muovevo con delicatezza, ma una sua grande dote era ascoltare chiunque: diceva che bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set, non restare chiusi in un’idea».

Qual è il film più difficile che ha montato?

«”Sacro GRA” di Rosi: non riuscivamo bene ad afferrare la narrazione perché, a differenza di altri suoi film, è l’unico che non ha un’unità di luogo e di tempo. Raccontavamo il Grande Raccordo Anulare di Roma, un’autostrada di 74 chilometri con una larghissima periferia e i personaggi erano molto diversi tra loro. Poi, abbiamo trovato la chiave e il film ha vinto il Leone d’Oro a Venezia». —

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