Jole Silvani dal varietà al grande cinema: l’attrice dal brioso talento che piaceva a Fellini

Ricorrono i 110 anni dalla nascita e i 70 dal suo debutto nel film di Aldo Fabrizi “La famiglia passaguai” che la rese famosa  

TRIESTE «No ierimo bravi, ierimo fenomeni!». Così Jole Silvani commentava, in un’intervista degli anni ’70 su Il Piccolo, l’epoca d’oro a cavallo della guerra della compagnia da lei guidata con Angelo Cecchelin “Triestinissima”, che aveva portato sui palcoscenici di tutto lo stivale il nostro teatro dialettale. Perché all’epoca, soprattutto a guerra finita, si voleva ridere, e a Trieste ciò voleva dire il varietà e l’avanspettacolo di quella irresistibile coppia.

Un doppio anniversario, questo dicembre, permette di celebrare l’indimenticata Jole Silvani, regina della comicità triestina, ambasciatrice del “morbin” e grande donna.

Il 9 dicembre di 110 anni fa Jole nasceva nella Trieste asburgica (vero nome Niobe Quaiatti), figlia di un linotipista de Il Piccolo. E il 20 dicembre di 70 anni fa esordiva anche nel cinema, nella travolgente commedia “La famiglia Passaguai”, debutto in regia del grande attore Aldo Fabrizi e successo in sala della romanità popolare.



La longeva carriera artistica della Silvani è legata al suo naturale e brioso talento, ma anche al meritato incontro con alcuni maestri. Prima Cecchelin e Fabrizi dunque, e poi Federico Fellini e Paolo Poli, con cui recitò per 13 anni. Per lei, dalla fine degli anni ’20 alla fine dei ’70, mezzo secolo di generosa vita d’attrice, sia come soubrette nel miglior teatro brillante (ma recitò anche Brecht e Shakespeare), sia come caratterista nel cinema d’autore, chiamata, oltre che da Fellini, anche da Bertolucci, Monicelli, Benigni e Troisi, la Wertmüller.

Jole Silvani, Hedy Vessel e tutte le altre. È Trieste la Città delle donne di Fellini
Jole Silvani con Marcello Mastrioianni


«Signorina, semo nei guai, debutemo a Pola…». Così nel 1928 Cecchelin, che aveva bisogno di una soubrette, si rivolse alla diciottenne Niobe, che recitava al ricreatorio Giglio Padovan. «Mi no gavevo nissuna intenzion de andar in ‘varietà’ – ricordava Jole – me pareva una vergogna. Ghe go dito: la senti, basta che no la meti el mio nome. ‘La ciamerò Jole Silvani, ghe piasi?’. Tanto, pensavo mi, per pochi giorni…». E invece la Silvani da allora è stata per sempre con Cecchelin, compagna nel lavoro e nella vita, fino alla morte di lui nel ’64, dandogli il figlio Guido nel ’38. Dopo il successo dei duetti con Angelo a Pola (“I bis che i ne domandava…”), arrivarono le tappe locali di Fiume, Zara, e poi Milano, Roma e tutta Italia, con spettacoli quali “La go fata mi!”, “Xe arivada Sua Eccellenza”, “Zio d’America”.

Ed è sempre grazie al varietà che Jole approda sul grande schermo nel dopoguerra. La vuole infatti un illustre collega dell’avanspettacolo, Aldo Fabrizi, per la sua prima regia cinematografica. È “La famiglia Passaguai”, farsa scatenata e ancora oggi divertentissima, nonché formidabile istantanea dell’Italia pre-Boom.

Nell’”incubo” comico di una giornata al mare della famiglia di Fabrizi (con la “moglie” Ave Ninchi e i “figli” Giovanna Ralli e Carlo Dalle Piane, debuttanti), la Silvani è uno dei personaggi chiave. È la moglie triestina del rivale di Fabrizi, Luigi Pavese, che, sospettata per sbaglio di essere l’amante di Fabrizi, si scontra in furiose litigate, fra le cabine e gli ombrelloni, con una petulante e strepitosa Ave Ninchi, qui romanissima, ma cresciuta e legata a Trieste. Insomma, belle “barufe” sotto il sole di Roma, forse pensando a San Giusto.

Ma Fabrizi era anche quello che aveva introdotto l’amico Fellini fra le “luci del varietà”. Ed è così che Federico, per la sua prima regia “Lo sceicco bianco” (1952), affida a Jole il vivace ruolo di una ragazza di vita. La Silvani è la prostituta alta che, in una scena notturna, forma una strana coppia con l’amica piccoletta Cabiria (Giulietta Masina). Fellini ricorderà nel ’79: «Nei primi tempi del mio soggiorno romano, con il comico Cecchelin c’era anche un’africanona, una specie di stregona, di sciamana, una bellissima donnona che rispondeva al nome di Jole Silvani, formosa, potente, con le narici dilatate e con degli occhioni che sembravano pece liquida. E io l’ho sempre seguita».

Trent’anni dopo, Fellini rivuole la Silvani per un altro personaggio caricaturale - a metà strada fra la Saraghina e la Tabaccaia – una fuochista-motociclista ne “La città delle donne” (1980). «Ma come parla questa?», sbotta Mastroianni mentre Jole è sotto la doccia: «Me dago una bela slavazzada –canticchia lei – Ah come me piasi l’acqua freda, la me rodola come la bora!». Per il dialetto triestino, nel cinema italiano accadeva che i personaggi quasi mai lo parlavano tale e quale.

Qui la Silvani recitava in una strana lingua fra il triestino e l’austriaco, il cui testo era stato scritto dal poeta veneto Andrea Zanzotto. Poco dopo nel film, Jole dà un passaggio a Marcello verso la stazione e, nonostante i suoi 70 anni, lungo il percorso si ferma, si spoglia e provoca Marcello. «È stata bravissima», dirà Fellini. E nelle pause del set, Jole prepara lo “strucolo de pomi” per tutta la troupe.

Passati i tempi in cui viaggiava per mesi con tre bauli, la Silvani rimane comunque attiva (anche in tv) fino quasi alla sua scomparsa, 83enne, nel ’94. Tra gli ultimi suoi recital, il successo “Un triestin in carega” nel ’79, diretta dal figlio Guido. Negli ultimi anni aveva iniziato un libro di memorie, “Un baul pien de ricordi”, che avrebbe voluto sottotitolare: “Con tanta allegria, è stata una gran fatica”. —


 

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