Judy Garland dalle vette all’abisso parabola dolorosa di una stella

Judy Garland si è goduta poco la magia del successo. Già a quindici anni, quando nel 1939 sgranava gli occhi al cielo cantando “Over the Rainbow” nei panni di Dorothy de “Il mago di Oz”, subiva la tirannia del produttore Louis B. Mayer che le imponeva diete ferree e ritmi di lavoro massacranti per trasformarla nella macchina da soldi della Metro Goldwyn Mayer. Da adulta fu perseguitata dai debiti, che la costrinsero in pratica a non scendere mai dal palco, in una spirale di depressioni e dipendenze. Finché è davvero volata lassù, “over the rainbow”, a soli 47 anni per un’overdose accidentale di quei barbiturici che aveva ingoiato per tutta la vita perché non riusciva più a dormire. “Judy”, il film di Rupert Goold tratto dalla pièce teatrale “End of the Rainbow” di Peter Quilter, racconta gli ultimi mesi della sua scintillante e dolorosa parabola quando, nel 1969, la Garland accettò per necessità economica una lunga tournée di concerti a Londra, allontanandosi malvolentieri dai figli (Liza Minnelli e i più giovani Lorna e Joey), perdendosi nella girandola delle nevrosi. A interpretarla è Renée Zellweger (candidata al Premio Oscar) che canta splendidamente i suoi successi più grandi e incarna con cuore e credibilità tutte le cadute (anche fisiche, da ubriaca sul palco) della Garland, i suoi dilemmi interiori, la ricerca di un equilibrio impossibile. Zellweger ha compreso, con toccante vicinanza emotiva, il senso della sceneggiatura: non tanto la celebrazione di un mito, quanto la testimonianza della vessazione continua che gli ingranaggi dello spettacolo hanno operato sulla Garland, dall’adolescenza ai concerti di Londra, quando una puntigliosa assistente (interpretata da Jessie Buckley) la spinge sul palco nonostante lei sia strafatta di calmanti. Il sopruso psicologico viene da lontano, come sottolinea la prima sequenza dove Judy, ragazzina sul set di “Il mago di Oz”, ascolta Louis B. Mayer fare un elenco dei suoi difetti: è nasona, ha i denti storti, è bassina. Ma ha una voce che fa sognare. Nei flashback che punteggiano il film la giovane Judy chiede al produttore un po’ di tempo anche solo per dormire: tutti i “no” ricevuti sono i nodi sui quali si tesserà il malessere della sua vita adulta.
Il cinema del resto adora le dive fragili soprattutto quando, divenute icone lontane, si trasformano in ottimo materiale per un film biografici: solo negli ultimi anni abbiamo visto al cinema le vite di Marylin Monroe (interpretata da Michelle Williams nel 2011), Grace Kelly (incarnata da Nicole Kidman nel 2014) e Jean Seberg (nel film del 2019 con Kristen Stewart). Il biopic di Goold però, pur canonico nella forma, fa caso a sé perché è come se mostrasse contemporaneamente due storie: quella di Garland, rimasta per tutti la Dorothy de “Il mago di Oz”, e quella di Zellweger che, nonostante un Oscar già vinto (per “Ritorno a Cold Mounitain”), è rimasta per tutti la single Bridget Jones del film del 2011. Tant’è vero che, quando Renée è ricomparsa dopo qualche anno di pausa visibilmente dimagrita, i media non gliel’hanno perdonato, proprio come, in un certo senso, non hanno mai perdonato a Judy Garland di essere diventata adulta. Sullo schermo le fragilità di Judy e di Renée si sommano in un crescendo di immedesimazione ed emotività esplosive: ed è anche per questo che Zellweger vola dritta verso un altro Oscar. Se lo vincerà davvero lo scopriremo domani notte, ma il suo ritratto di Judy Garland resterà comunque uno dei punti più alti della sua carriera.
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