“Jugoslavia terra mia” dove il destino è la vendetta

Vladan pensava che suo padre, ufficiale dell’armata jugoslava, fosse morto durante la guerra scoppiata dopo la dissoluzione della Jugoslavia e invece scopre da internet che Nedeljko è vivo ed è ricercato quale criminale di guerra. Da diciassette anni vive nascosto da qualche parte. Il suoi soldati hanno ucciso trentaquattro civili in un paese della Bosnia e li hanno sepolti in una fossa comune. Vladan decide così di partire da Lubiana, la città della madre dove si è trasferito dalla natia Pola, e di mettersi alla ricerca del padre. “Jugoslavia, terra mia” di Goran Vojnović (Forum, pagg. 291 pagg, euro 19,50) è il racconto di questo viaggio balcanico attraverso Croazia, Bosnia, Serbia in cui Vladan, un Telemaco ferito, indolente, smarrito, si accorge che è impossibile rimettere insieme i pezzi di una vita andata in frantumi all’inizio dell’estate del 1991. Allora, a Pola, Vladan e i suoi amici si pregustavano i giorni spensierati delle vacanze e delle gite in barca, e invece la tv annunciava l’indipendenza della Croazia e della Slovenia, evento che avrebbe cambiato per sempre le loro vite e quelle di milioni di abitanti della repubblica federale creata dal maresciallo Tito nemmeno cinquant’anni prima. Di lì a poco, in luglio, scoppiava la guerra in Croazia e l’anno successivo in Bosnia. Dieci anni di devastazioni, lutti e massacri che hanno distrutto una intera generazione. Eppure una leggenda balcanica insinua che se ai mondiali di calcio del 1990 la Jugoslavia avesse battuto l’Argentina, quella vittoria avrebbe contribuito al ritorno di un nazionalismo jugoslavista e scongiurato il crollo che si sarebbe prodotto. “È finita” grida a squarciagola un affranto Nedeljko davanti alla tv quando Faruk Hadžibegić, capitano dell’ultima nazionale del Paese unito sbaglia il rigore decisivo e quel tiro divenne nei Balcani il simbolo dell’implosione di un intero Paese.
Goran Vojnović è il primo narratore sloveno ad affrontare il tema delle guerre jugoslave e a indagare il loro lascito nei nati negli anni Ottanta. Nel suo libro d’esordio “Čefurji raus!” uscito nel 2008, da cui è stato tratto anche un film, ha affrontato il difficile tema dell’integrazione dei “cefuri”, coloro che arrivano a Lubiana dalle repubbliche meridionali. “Jugoslavia, terra mia”, che si è aggiudicato il premio letterario Kresnik per il miglior romanzo pubblicato in Slovenia, è centrato intorno alla riflessione su come il periodo storico in cui vivono gli uomini si intrecci alla loro esistenza, ne indirizzi i destini. Nedeljko, un uomo semplice, diviene un criminale di guerra perché incapace di sfuggire alla maledizione della memoria: “la gente ricorda e questa è la sua massima maledizione”. I Balcani sono avviati a un destino di vendette ataviche, dove c’è una tomba serba là c’è la Serbia, diceva Slobodan Milosevic e quando Nedeljko incontrerà finalmente Vlada, in una Vienna divenuta il suo rifugio di ricercato, gli svelerà il segreto di famiglia, altri lontani eccidi, cataste di cadaveri sui quali giurare vendette. “È la vita che gioca con noi, tutto era stato deciso per me in anticipo, non c’è mai stata una possibilità di scelta”, dice Nedeliko al figlio. Il titolo non tragga in inganno: non c’è “jugonostalgia”, quel sentimento divenuto moda e diffuso nelle ex repubbliche, soprattutto in Croazia, di andare alla ricerca di quanto c’era di bello nel passato federale, nel libro di Vojnovic. Viceversa lo sguardo beffardo del protagonista, che investe le architetture grigie o kitsch o le persone con le quali sente di non avere nulla in comune, constata l’incolmabile abisso tra la Slovenia e resto della Jugoslavia.
Paolo Marcolin
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