Kanizsa e i mondi mentali

di PAOLO LEGRENZI
Gaetano Kanizsa, un grande triestino. Gaetano Kanizsa, il più noto "percettologo" italiano. Gaetano Kanizsa, una personalità eccezionale. Studio, pittura e gioia di vivere.
Nasce a Trieste nel 1913, in un quartiere popolare. Il padre è un artigiano ebreo venuto dalla periferia dell'impero. Kanizsa raccontava ironicamente, ma non troppo, di essersi scoperto ebreo in occasione della persecuzione nazifascista: «E se fossi stato figlio di un cavallo, che colpa avrei avuto per essere cavallo!». Così si sbarazzava della questione su cui non amava soffermarsi.
Un'adolescenza frugale, se non povera. Una volta gli raccontai che da piccolo avevo sempre con me un coltellino svizzero. Lui aveva desiderato per anni un coltello con il manico d'osso. Quando finalmente lo ebbe in regalo, il manico era di legno. Ma per Kanizsa non contavano famiglie, origini e censo. Bastava che una persona non fosse "mona", che, nel suo lessico personale, voleva dire essere creativi e intelligenti (ma il "colpo di mona" estroso era permesso e compreso!).
Fece l'università a Padova. Lì incontrò lo psicologo veneziano Cesare Musatti e ne restò affascinato. Da lui imparò la psicologia della percezione, e coltivò tutta la vita questo tipo di studi dove raggiunse l'eccellenza internazionale. Durante una passeggiata sul Carso, da una trattoria di Ternova a un'osteria di Sgonico, mi disse che la psicologia della percezione è il cuore della psicologia. «Stiamo passeggiando noi due soli. Immagina che non ci siamo neppure noi. Il tramonto si riduce a fasci di particelle. I suoni sono solo onde meccaniche. Forme e colori del paesaggio scompaiono, se nessuno li guarda. Eppure noi ci siamo, e tutto si anima grazie alla nostra capacità di stare attenti ad alcune cose, e non ad altre. Ecco che si crea un mondo di colori, luci, forme, suoni».
Se scopriamo come funzionano la visione e l'attenzione, potremo creare nuovi mondi, immagini, artifici, oggetti artistici. Un mondo inventato da noi, il mondo degli uomini.
Erano gli inizi degli anni Settanta e Kanizsa neppure sospettava che mezzo secolo dopo i giovani avrebbero guardato sugli schermi dei loro computer portatili, da cui non si separano quasi mai, tutta una serie di immagini artificiali costruite apposta per catturare l'attenzione. Nelle figure di Kanizsa c'è l'analisi del funzionamento di tali immagini, che ormai sovrastano quelle fornite dalla natura. Sui nostri mondi mentali interni, invece, Kanizsa era più cauto e, in particolare, era sospettoso nei confronti della psicoanalisi, di cui Musatti si considerava il pioniere italiano. (Musatti non citava mai il suo coetaneo Enzo Bonaventura, che lo aveva preceduto, poi emigrato a Gerusalemme e morto prematuramente nella guerra del 1948, alla nascita di Israele).
Con il fascismo gli psicologi non se la passano molto bene, soprattutto se ebrei. Musatti perde il posto di professore universitario e Kanizsa quello di assistente. Si ritrova così a insegnare in un liceo. A un certo punto il preside non se la sente più di dimenticarsi di riempire la casella "razza": la teoria del figlio innocente del "cavallo" non aveva purtroppo convinto i fascisti. Così Kanizsa divenne apolide e perseguitato. Riparò, alla macchia, sul confine del Carso, campando grazie all'allevamento dei conigli. Si spostava da un posto all'altro e frequentava le osterie, dove i locali lo proteggevano nascondendolo (erano profondamente anti-fascisti essendo stati duramente discriminati).
Comunista perché perseguitato, perseguitato perché comunista. Aveva un senso di giustizia e di attenzione ai più deboli che non l'abbandonò mai, anche quando la fede politica giovanile scomparve. Kanizsa non era incline alle teorie, gli piaceva la vita, quel che si vedeva e si poteva mostrare, ciò che era indubitabile, per quanto stupefacente. Amava muoversi e fare e, nel 1953, fondò l'istituto di psicologia dell'università di Trieste.
Diffidava della credulità delle persone di cui aveva fatto esperienza proprio girovagando per le osterie. Molti vogliono credere che uno psicologo sia in grado di svelare la loro natura più intima. Soleva dire che oggi la psicologia è l'unico modo per fare miracoli sotto le apparenze di operazioni fintamente scientifiche. Le persone, fin dai tempi della sua clandestinità, gli raccontavano spontaneamente le loro storie, data la sua personalità coinvolgente particolarmente aperta all'ascolto. Poi, un po' alla volta, Kanizsa prediva loro il futuro, arricchendo quello che loro stessi gli avevano raccontato, senza che se ne rendessero conto. Pose così le basi per un famoso lavoro pubblicato nel dopo-guerra. Si faceva dare da chi partecipava all'esperimento poche righe scritte a mano dicendo che lo stile della calligrafia gli avrebbe permesso di diagnosticare la personalità di ciascuno. In realtà le diagnosi erano tutte uguali, ma sapientemente costruite, dicendo e non dicendo, in modo vago, come negli oroscopi: «Lei in apparenza è sicuro, ma sotto sotto... Lei sembra forte, ma in realtà è una persona fragile...».
Molte persone, le più credulone, si convincevano che le diagnosi di personalità fossero ricavate dall'esame del loro specifico modo di scrivere a mano. Un esperimento anticipatorio nel senso che mostrava la genesi della fiducia acritica negli pseudo-scienziati, quelli che spiegano che non bisogna vaccinarsi, che si può curare il cancro con pozioni varie o che la medicina omeopatica è efficace.
Quando andai a Trieste, al principio degli anni ’70, e diventammo amici, era già un importante accademico e scienziato. Passava all'incirca metà tempo a Milano e metà a Trieste. Era appassionato lettore de "La Cittadella", il settimanale satirico abbinato a “Il Piccolo” del lunedì, che andava religiosamente conservato per il suo ritorno. Pur non avendo molta fiducia nella psicologia come terapia personale, gli piaceva l'invenzione delle immagini, delle parole, e dei nuovi mondi della comunicazione. Insieme a altri triestini come lo statistico Pierpaolo Luzzatto Fegiz, era stato a Milano uno dei primi studiosi a interessarsi alle nascenti ricerche di mercato.
Oltre la percezione visiva, l'altra passione di Kanizsa (morto nel 1993) era la pittura e, mentre scrivo, sto guardando il quadro esposto alla Biennale del 1986, raffigurante un'illusione ottica costruita con il bianco e il nero che genera dei quadrati illusori, una sorta di variante del famoso "triangolo di Kanizsa", facile da trovare googlando questo nome. La tecnica di costruire figure astratte avvicinando molti punti era stata utilizzata anche da Paolo Bozzi, il suo allievo più noto oggi tra i filosofi. Bozzi mi aveva laureato nel 1965 a Padova e, in seguito, sarebbe tornato dal suo maestro a Trieste portandomi con lui. I filosofi hanno rivalutato la tradizione, che risale a Kanizsa e Bozzi, consistente nel mostrare una realtà non emendabile, non modificabile con il pensiero, per usare un termine caro a Maurizio Ferraris che ha istituito il Premio Paolo Bozzi.
Tutta la vita ho studiato le illusioni cognitive, cioè gli inciampi del pensiero che ci frenano nell'usare quella che con Armando Massarenti ho chiamato "la Buona Logica". Le illusioni del pensiero ci combinano molti guai quando prendiamo decisioni sulla nostra vita, ma, per fortuna, si può, seppure con fatica, imparare a correggerle. Quelle percettive no, perché sono incorporate nel software automatico della nostra visione. Ma senza le informazioni che raccogliamo con l'attenzione visiva, poco potremmo fare.
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