Kim Ki-duk attacca la Corea del Sud

Nella “Rete” la dipinge come “paese canaglia”
Di Roberto Pugliese
South Korean director Kim Ki-duk (C) poses with South Korean actors Lee Won-gun (L) and Ryoo Seung-bum (R) during a photocall for 'Geumul' (The Net) during the 73rd Venice Film Festival in Venice, Italy, 01 September 2016. The movie is presented in the 'Cinema nel Giardino' section at the festival running from 31 August to 10 September. ANSA/ETTORE FERRARI
South Korean director Kim Ki-duk (C) poses with South Korean actors Lee Won-gun (L) and Ryoo Seung-bum (R) during a photocall for 'Geumul' (The Net) during the 73rd Venice Film Festival in Venice, Italy, 01 September 2016. The movie is presented in the 'Cinema nel Giardino' section at the festival running from 31 August to 10 September. ANSA/ETTORE FERRARI

VENEZIA. Benché sia il regista più noto e blasonato del proprio paese, Kim Ki-duk non gode di eccessive simpatie in Corea del Sud. Il suo cinema eccessivo, spesso estremo, i personaggi shock e le situazioni border-line confliggono infatti con la visione propagandistica e hi-tech, tutta smartphone e luccichìi, che Seul vorrebbe trasmettere di sé, in evidente contrapposizione con la cupa, oppressiva e medioevale dittatura paleocomunista del Nord. Tutta la sua filmografia contraddice questo ottimismo, muovendosi in una parabola poetica sostanzialmente angosciante, che raggiunge i propri vertici soprattutto quando si muove nei territori dell'astrazione tragicomica ("Ferro 3") o della metafora lirica ("Primavera, estate, autunno, inverno...","L'arco"), assai più che in quelli della provocazione, peraltro sempre spietata e diretta ("Pietà", Leone d'oro 2012, o l'incendiario "Moebius", anch'esso transitato di qui).

Amatissimo dai festival occidentali e negli ultimi anni anche dal pubblico, Kim rischia ora di veder inasprirsi l'ostracismo patrio nei propri confronti con quest'ultimo "Gemul (La rete)", scelto per aprire il "Cinema nel Giardino", inaugurando così la nuovissima, un po' traballante (alcune file di poltrone non erano fissate bene, ma è stato fatto tutto molto in fretta...) sala che sorge a cancellare la vergogna del "buco" fronte Casinò: perchè "La rete" affronta sì il tema spinoso del conflitto tra le due Coree, che Kim aveva già trattato nel 2002 in "Hae-anseon (La guardia costiera)", ma lo fa con una simmetria e una durezza senza sconti.

Al centro della vicenda vi è un povero pescatore del Nord, che vive del proprio lavoro in una catapecchia, felice e appagato dalla propria famiglia, nel culto del "Caro Leader" e della nobile causa anticapitalista; finché un bel giorno gli si rompe il motore della barca e la deriva lo spinge nelle acque territoriali del Sud, dove viene immediatamente prelevato, sospettato di spionaggio e duramente interrogato dalle autorità. Abbagliato dal benessere di quella società, che si rifiuta persino di guardare, e desideroso solo di tornare a casa, l'uomo è vessato in particolare da uno sbirro fanatico e persecutore, invano contrastato da una giovanissima guardia che ne intuisce l'innocua semplicità d'animo. Suo malgrado, e mentre Pyongyang ne fa un martire della brutalità capitalista, il protagonista diviene una pedina in parte inconsapevole nel gioco perverso della propaganda, finchè non viene rispedito al Nord: dove però il regime se da un lato lo celebra come eroe dall'altro lo torchia senza pietà sospettandolo di aver svelato chissà che al "nemico".

Questa specie di Josef K estremorientale tocca così con mano, non riuscendo peraltro a comoprenderla e sino all'inevitabile epilogo, la speculare spietatezza di due macchine da ideologia ben più accomunate da metodi sadici di quanto non le divida una fragile cortina di ferro: ma se del Nord si può intuire e pensare tutto il male possibile ("paese canaglia" e quant'altro, documentato dalle grottesche scritte apologetiche che campeggiano ovunque), lo sguardo sull'apparato burocratico e inquisitorio del Sud è terribilmente implacabile. Ed è un ritratto, sintetizzato nel poliziotto dai metodi alla Callaghan, che Kim collega immediatamente allo sviluppo abnorme, disordinato e antietico di quella società: al cui interno il poveraccio venuto dal Nord trova persino il modo di salvare e proteggere una prostituta da un brutale pestaggio. Con la consueta durezza, ma fortunatamente senza gli eccessi un po' esibizionisti degli ultimi film, il regista dipinge due situazioni e due realtà eguali ed opposte che condividono, in sintesi, il disprezzo per l'individuo; lo fa con qualche semplificazione psicologica che sfocia nel manicheismo (il giochino del poliziotto buono e quello cattivo...), e dimostrando di non possedere completamente i tempi e i ritmi del film "politico" così come siamo abituati a concepirlo in Occidente. Ma la cifra brutalmente realistica con cui è descritta la sistematica distruzione di una persona da parte di due regimi che fingono di odiarsi è impressionante, anche grazie alla prova superba e fisicamente "totale" del protagonista Ryoo Seung-bum; e conferma una volta di più la distanza siderale che separa le cinematografie di queste latitudini, rigorose sino alla crudeltà, dal buonismo edulcorato e stucchevole di tanto cinema occidentale.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo