La biografa dal cattivo carattere geniale scrittrice di lettere false

Ha quello che si dice un caratteraccio, Lee Israel. Un fare sempre sgradevole, caustico, muso duro e lingua tagliente. Si trascina da un lavoro che disprezza a un'abitazione lercia e degradante, whiskey perennemente alla mano. Fa la scrittrice ma le sue biografie, acute, apprezzate tanto da comparire tra i best-seller del New York Times, non sono più richieste in un mondo editoriale che sta cambiando alla velocità della luce. È un personaggio femminile stridente, dissonante con il resto del mondo che si adatta alle trasformazioni della società la protagonista di «Can you ever forgive me?» di Marielle Heller, finalmente ben tradotto in italiano con un ossimoro fulminante, «Copia originale». Tre le nomination all'Oscar per questa commedia molto agra, venata di una malinconia struggente, che arriva da un storia vera, ambientata in una New York anni '90 di cui pare di respirare la frenesia, il fervore intellettuale ma anche la spietatezza verso chi non sta al passo.
Licenziata in tronco per un'uscita più infelice del solito, scaricata dall'agente, bruciati tutti i contatti, Lee è soffocata dai debiti che la trascinano giù in un vortice che pare non avere fine. Ma il modo per risalire la china lo troverà per caso, e proprio dentro un libro: una lettera di una cantante famosa deceduta, che Lee subito rubacchia e rivende, dopo aver visto le quotazioni del collezionismo di questi cimeli, a prezzo salato. L'idea sarà quindi di falsificare lettere di personalità scomparse per farci i soldi, affidandosi alla sua penna colta ma con quello stile sferzante in più. Jack Hoch, stravagante, fiammeggiante gentleman gay che come lei ha fatto dell'arte di arrangiarsi il suo credo diverrà presto il suo sodale nella rischiosa attività.
I pregi del film sono talmente tanti che non si sa da dove iniziare.
Complessa, stratificata e densa di tematiche e accenti, la sceneggiatura di Nicole Holofcener e Jeff Witty, comunque fedele al libro della Israel da cui è tratto il film, è giustamente in corsa per la statuetta. C'è una riflessione intelligente e profonda su creatività e talento, su ciò che è originale rispetto alla copia con l'avanzamento della tesi – provocatoria - di eccessiva sopravvalutazione del primo: «la mia Dorothy Parker è meglio di Dorothy Parker» dice Lee, consapevole della sua finezza intellettuale: e in effetti i suoi falsi hanno una marcia in più. Ma Heller rende incisivo e portante anche il mondo intorno, un milieu feroce dove «puoi far la stronza solo se sei famosa», che macina e sputa chi non serve più, che non ha gusto né «rispetto per la parola scritta». Dal primo fotogramma spiazza vedere, a dar corpo a questa struggente solitudine, una comica come Melissa McCarthy in genere dedita a ruoli trash: sorprende lo spessore dell'interpretazione, vibrante, sottile, sfaccettata e ricca di umanità, che le spiana la strada verso una nuova carriera drammatica e naturalmente la consegna alla candidatura dell'Academy. Si ride (amaro) ai duetti taglienti con Richard E. Grant, che regala una performance magnetica e impeccabile al suo Jack, spirito libero e inafferrabile dedito al sesso promiscuo e alla coca che lo proietta, unico attore britannico, nella rosa degli Oscar come miglior attore non protagonista. —
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