La Bosnia Erzegovina oggi Stato “feudale” nato da un primitivo e terribile conflitto

“In una sola generazione, la Bosnia ha generato più storia di quanta ne avrebbe mai voluta la maggior parte dei suoi abitanti”. L’affermazione di Cathie Carmichael in prefazione al suo libro “Capire la Bosnia ed Erzegovina” (Bottega Errante Edizioni, 250 pagine, 18 euro) si completa con una citazione di Ivo Andrić, il Nobel jugoslavo per la letteratura, il quale afferma che ci sono “pochi Paesi con una fede così salda, con una sublime forza di carattere e profondità di sentimenti, con una tale sete di giustizia…tuttavia nelle segrete profondità che vi sono al di sotto di tutto ciò si celano odi brucianti, veri e propri uragani di odio raffrenato e compresso che maturano in attesa del momento adatto per esplodere”.
L’ultima esplosione è avvenuta negli Anni Novanta e Cathie Carmicael spiega bene il perché, come sottolinea la giornalista e scrittrice Azra Nuhefendić nella post-fazione al volume.
Cathie Carmichael insegna Storia dei Balcani e del Mediterraneo orientale all’Università dell’East Anglia di Norwick. Frequenta la Bosnia ed Erzegovina dal 1988, quando ancora era Jugoslavia. Dalle sue ricerche e dai suoi viaggi è nato questo volume, tradotto da Piero Budinich.
La tragedia bosniaca è figlia di quella immane tragedia che ha segnato l’Europa all’inizio del ‘900 (non a caso il sottotitolo del volume è “Alba e tramonto del secolo breve”), cioè la distruzione dei grandi imperi multinazionali seguita alla Grande Guerra. La Bosnia ed Erzegovina, che aveva trovato un certo equilibrio nel periodo ottomano e un limitato sviluppo nell’impero asburgico, che l’aveva annessa nel 1908 dopo averla amministrata dal 1878, viene coinvolta nel primo conflitto mondiale che turba “la significativa acculturazione e il reciproco rispetto fra i gruppi religiosi” maturati sotto il dominio turco e quello austriaco, come attesta nel suo libro sui Balcani lo storico istriano Egidio Ivetic.
E sarà il secondo conflitto mondiale a dare un altro duro colpo a quell’equilibrio con le scorrerie degli ustascia croati, dei cetnici serbi e dei musulmani filo nazisti arruolati dal gran mufti di Gerusalemme, Amin al Husseini.
I settant’anni di pax titina, con il collante ideologico del comunismo e l’illusione della “bratstvo i jedinstvo”, fratellanza e unità, assopiranno le pulsioni devastatrici che esploderanno come un’eruzione vulcanica il primo marzo 1992. Sarà terribile.
In Bosnia Erzegovina si materializzerà l’orrore nazi-fascista: campi di sterminio, pulizia etnica, genocidio. Nel ’94 la strage di civili in fila per procurarsi un po’ di cibo al mercato Markale di Sarajevo, assediata da due anni (in tutto saranno quattro), induce l’Occidente a muoversi; e il massacro di Srebrenica del 1995 con oltre ottomila vittime, è l’epitome di una guerra crudele che devasta la Repubblica che rappresentava meglio di tutte le altre l’illusione jugoslava.
La Carmichael non esita a mettere sul banco degli accusati il nazionalismo serbo incarnato da Slobodan Milošević, sottolineando che “la comunità internazionale fece ben poco per aiutare la Bosnia… per un’ottusa incapacità di distinguere tra le vittime e i carnefici” e riporta il giudizio del giornalista inglese John Keegan che descrive la guerra in Bosnia come un “primitivo conflitto tribale, del genere noto solo a un ristretto numero di antropologi”.
Accanto vanno messi i croati di Tudjman, complice di Milošević nel tentativo di dividersi la Bosnia ed Erzegovina.
Il risultato sono “tre feudi” bosgnacco, croato e serbo, in cui vive bene soltanto una ristretta cerchia di politici e faccendieri, sottolinea Božidar Stanišić, scrittore serbo di Bosnia e pacifista, che ha trovato rifugio nella nostra regione. Quel che ne esce è un Paese bloccato dai veti incrociati che non riesce a crescere economicamente.
Ma la guerra in Bosnia è anche una lezione per tutta l’Europa, perché mostra secondo Stanišić “cosa accadrebbe se un giorno la maggior parte dei cittadini europei decidesse di dare il proprio voto ai demagoghi populisti con una coscienza politica retrograda?”. —
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