La camicia nera di Balbo finita in Tripolitania per eccesso di potere

Paolo Marcolin



«Ho convocato in piazza San Claudio le squadre degli arditi ai quali spetterà il compito dell’azione terrorista nel caso di una difesa a oltranza delle forze del regime dentro la capitale. Sono armati di bombe e spezzoni e hanno a diposizione ben quattro lanciafiamme. Dovranno attaccare, se necessario, i centri vitali della resistenza governativa a cominciare dal palazzo del Viminale, gettare il disordine e la paura nei gradi alti e bassi degli uffici statali, rendere difficile e pericolosa la vita del governo a Roma».

È il 26 ottobre 1922 e Italo Balbo, uno dei quadrumviri, è a Roma in procinto di dare il via all’insurrezione. Sul suo diario annota le impressioni di quei momenti. “Qui si combatte col centesimo. Non ho un soldo in tasca quantunque ieri con De Bono e De Vecchi per finanziare la rivoluzione abbia firmato un impegno per tre milioni di lire. Ricorro a Marinelli, il tirchio”. Il denaro serviva per pagare alberghi, pensioni e case private ai rivoluzionari accorsi a Roma. Sono Rivoluzionari solventi, questi fascisti che calano a Roma pensando di usare il lanciafiamme e invece poi sfileranno sotto il Quirinale accolti dal Re che ha pensato di affidare il governo a Mussolini.

Momenti convulsi e decisivi della storia d’Italia che Balbo ha contribuito a determinare e di cui ha lasciato traccia in un diario che registra la cronaca degli avvenimenti di tutto quell’anno fatidico della Marcia su Roma e che, pubblicato per la prima volta nel 1932 da Mondadori nella prestigiosa collana ‘Le scie’, viene riedito dalla Leg (Italo Balbo. Diario 1922. Le camicie nere alla conquista del potere. pagg. 211, 18 euro).

Scritto con stile secco e telegrafico, al suo apparire nel 1932 il Diario non ebbe successo: Balbo aveva lasciato poco spazio a Mussolini e agli altri ras, così, per ripicca, ottenne poco spazio sui giornali. Nell’introduzione il curatore, Mimmo Franzinelli, spiega come leggere oggi il diario di Balbo possa servire alla comprensione di quanto la violenza organizzata contribuì all’avvento del fascismo. Il 28 luglio, per esempio, Balbo nota: “Questa notte le squadre hanno proceduto alla distruzione dei vasti locali della confederazione delle cooperative socialiste di Ravenna”.

Squadrista, massone fino a quando il fascismo non chiuse le logge, Balbo fu legato a Mussolini da un complesso rapporto di ammirazione e rivalità; non era interessato a diventare ricco ma a esercitare il potere. Dopo gli inizi nelle campagne del ferrarese a colpi di manganello o, in mancanza, di stoccafisso, come dicono sia successo una volta, quando il fascismo conquista il potere trova la sua dimensione nell’Aeronautica. Da sottosegretario dà al settore un impulso straordinario, compie in prima persona grandi imprese che gli danno una fama mondiale. Mussolini, geloso, lo esonera e lo nomina governatore della Tripolitania. “Una fregatura bella e buona, lui lo ha fatto col preciso intento di levarmi dai piedi” dice a De Bono.

Balbo odia i tedeschi. “Lustrate le scarpe alla Germania” osa dire a Mussolini. Allo scoppio della guerra assume il comando delle forze armate in Libia e il 28 giugno muore abbattuto proprio dalla contraerea italiana. Sin dal primo momento circola il sospetto di un complotto suggerito da Mussolini, ma secondo Folco Quilici, figlio del giornalista Nello che era a bordo dell’aereo, la colpa è del caos che c’era a Tobruk quel giorno, quando mentre erano in corso i bombardamenti inglesi furono sparati diecimila pezzi d’artiglieria. —

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