La famiglia diventa una trappola quando Violet denuncia i fratelli

Mary B. Tolusso
Più che un mistero, Joyce Carol Oates è un miracolo. Più di cento libri, tutti letterari e il prodigio continua se pensiamo che a più di ottant’anni Oates riesce sempre a scrivere con la freschezza di un ventenne. Non sbaglia un colpo, soprattutto quando nel mirino c’è uno dei temi nodali della sua poetica: la famiglia. «La famiglia in cui nasci e dalla quale non ci può essere scampo». Sì perché nell’ultimo romanzo “Ho fatto la spia” (La Nave di Teseo, pag. 496, euro 20), da oggi in libreria, Oates non ha remore nel mostrarci le contraddizioni della principale cellula sociale, la famiglia appunto, che a quanto pare non si è ancora evoluta da un’idea tribale: se la tradisci, sei finito. A viverlo è Violet Rue, la protagonista della storia che quasi subito ci informa: «Avevo dodici anni. Fu la mattina del mio ultimo giorno di infanzia». Ed è una mattina del 1991, a South Niagara in novembre, quando quella stessa notte un ragazzo di colore, Hadrian Johnson, viene selvaggiamente picchiato e ammazzato sul ciglio di una strada.
Violet sa che tra i colpevoli ci sono i due fratelli, Jerome e Lionel. Li ha visti rientrare tardi quella sera, nascondere la mazza da baseball insanguinata. Lionel e Jerome sono i suoi fratelli preferiti, così come lei è la preferita di papà. Almeno finché la sua stessa confessione farà incriminare i colpevoli e Violet sarà allontanata dalla famiglia, non solo perché non è ritenuto un posto sicuro per la sua crescita, soprattutto perché è la famiglia stessa a ripudiarla. Oates ci narra proprio questi quindici anni di distanza forzata, un esilio che è una narrazione di dolore ma alla maniera di Oates, capace di raggiungere cime di crudeltà e colpire il lettore a viso aperto. Così assistiamo Violet traslocare da un posto all’altro, da una molestia all’altra, sempre in quell’area territoriale che corrisponde alle campagne dello stato di New York, dove anche l’autrice è cresciuta, un’America fatta di parecchia solitudine. E violenza.
Forse in nessun romanzo come in questo c’è una così perfetta corrispondenza tra razzismo di classe, di razza e di genere. Una malattia che Violet fa da piccola, crescendo con la precisa coscienza della ferocia degli uomini, in un’infanzia che è stata il massimo della felicità e il massimo dell’illusione. La sfida è quella di mantenersi in vita. Evitare di annegare. Violet sarà una studentessa modello, farà la cameriera, la donna delle pulizie e ovunque assimila una certezza «che le persone in posizione di potere vogliono che tu sia d’accordo con loro a prescindere, e non vogliono altro». Lo stesso principio vale per chi ha su di te un potere biologico, perché in fondo non si capirà mai se i genitori ti amano perché sei tu o il figlio che è loro.
Oates non fa mai indietreggiare la sua eroina, certo è pronta a tornare se suo padre riuscisse a perdonarle quel “tradimento”, ma non è certo individuo che elemosini pietà o affetto. Vuole essere amata, come chiunque, ma sa anche che voler essere benvoluti a tutti i costi è una grande debolezza: «Rinunci a qualsiasi dignità quando vuoi essere benvoluta, amata». In fila troviamo tutti i sentimenti, l’odio di classe, le discriminazioni di razza, la violenza fisica e psicologica nei confronti delle donne, quest’ultima descritta con un tale realismo da destabilizzare, insomma tutti elementi che si prestano a una facile retorica. Ma in Oates no. Perché riesce sempre a legare il sociale all’esistenziale, a evidenziare la sofferenza di un individuo, passando agevolmente dalla prima alla seconda persona, coinvolgendo il lettore su altri temi quali la verità, la possibilità di una speranza, la necessità di esistere per gli altri, «Come si dice, non ci è possibile concepire il mondo senza di noi», scrive.
Ma la cosa si fa ardua quando anche i tuoi affetti più cari non ne vogliono sapere di ascoltare qualche verità e Dio pare «l’ennesimo trucco degli adulti per farti comportare come gli altri vogliono che ti comporti». Eppure finisce bene “Ho fatto la spia”, c’è addirittura un lieto fine dopo tanti finali a sorpresa, e nonostante questo ciò che rimane addosso è il tono anticonsolatorio, disturbante, che poi è quello che produce la letteratura. Chiudere un libro e metterti a pensare. —
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