La giornalista coraggiosa sotto scorta in lotta per la verità contro i clan



«Te se non c’è il morto non sei contenta». L’annuncio del capocronaca della redazione romana di “Repubblica” di affidarle l’ennesima rapina in gioielleria lascia ancora una volta frustrata la sua voglia di raccontare grandi storie. Perché Federica Angeli è una giornalista che ha, più che il desiderio, il bisogno di sporcarsi le mani, stufa del suo fiuto gettato alle ortiche e di notizie bomba «risolte in cinque righe». “A mano disarmata” è il film tratto dal libro omonimo dove ha raccontato l’inquietante vicenda che l’ha coinvolta, quando, dal 2013, le mani se l’è realmente sporcate fino al rischio di pagare con la vita. Per tradurre in immagini le sue parole non a caso c’è Claudio Bonivento, qui regista ma storico produttore da sempre attratto da certo cinema civile, finanziando esordi di grande impatto degli anni 80-90 tra cui “Ultrà” e “La Scorta” di Tognazzi jr. , “Mery per sempre” e “Ragazzi fuori” di Risi, o di Marco Tullio Giordana fino a “Pasolini, un delitto italiano” .

Se siamo nei tracciati di quel cinema civile ruvido e un po’ “sporco” che tanto ama, a sorpresa Bonivento lascia fuori fuoco la narrazione delle imprese delinquenziali del clan che ha terrorizzato Ostia e della corrispondente indagine della protagonista, per approcciarsi alla vicenda prediligendo invece il taglio privato, una dimensione più intima e familiare, mettendo in risalto le gravi e spesso impensabili situazioni in cui si trova una persona sotto minaccia di morte, a cui viene assegnata una scorta armata.

Da una manciata di parole captata un giorno durante un normalissimo pranzo di famiglia la protagonista, interpretata con gran passione e impegno da Claudia Gerini, capisce che qualcosa non va in quel quartiere che tanto ama fin da ragazzina, e dove è rimasta a vivere con il marito (Venditti jr.) e tre figli. La curiosità iniziale sulle parole del ristoratore che accenna all’invivibilità della zona si trasformerà presto in volontà di approfondimento e determinata caparbietà a vederci chiaro, nonostante le violente intimidazioni che riceverà dai vertici del clan Costa, Calogero in testa (un Mirko Frezza che più truce non si può), che han reso Ostia territorio privato dove spadroneggiare. Ma il dolore maggiore dovrà ancora arrivare, per la protagonista, e sarà quel forte, martellante, assordante invito a voltare la testa e lasciar stare, che tanto «son 40 anni che è così», indirizzatole da tutti quelli che la circondano: detto dai familiari, però, sarà la pena più grande. Certo, il film reca un taglio marcatamente televisivo, scandito a tappe regolari e privo di guizzi rilevanti; ha un incedere didascalico, con tanto di voce fuori campo e dialoghi talvolta pregni di una solennità irrealistica, ma nonostante ciò emerge, credibile, il dilemma morale della protagonista, lo smarrimento, l’amarezza, la solitudine, supportati da una convincente Gerini. Una donna che non perde la leggerezza e l’ironia, la sua Angeli, anche vivendo da prigioniera in casa propria, con tanto di inferriate alle finestre e marcata stretta nella propria intimità da perfetti sconosciuti, anche se delegati a proteggerla. Una scelta indovinata e felice per raccontare una donna che ha fatto qualcosa di veramente straordinario nella propria vita, ma senza cedere alla tentazione celebrativa di ridurla a “santino” o a eroina senza paura. —





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