La magia giapponese di “Earwig e la strega”

Nell’Inghilterra degli anni Novanta, l’orfana Earwig ha dieci anni e non vuole essere adottata, ma un giorno trova ugualmente famiglia. Viene accolta in una casa misteriosa e si trova di fronte a Bella Yoga e Mandragora, strega lei, demone lui, pronti ad offrirle una vita piena di magia…

Adattamento di un romanzo dell’autrice inglese Diana Wynne Jones (come ai tempi de “Il castello errante di Howl”), “Earwig e la strega” porta lo Studio Ghibli in territori estetici inesplorati.

Una rivoluzione digitale firmata dal regista Gorō Miyazaki, figlio del celebre Hayao, che rompe con la tradizione e, va detto, spoetizza un po’ il risultato, mancando la bellezza del disegno a cui Miyazaki Senior ci ha da tempo abituati.

I problemi del film sono però anche altri. A partire da un’incompiutezza di fondo, risultato di un epilogo un po’ sbrigativo, che non rende merito alla protagonista, ennesima eroina temeraria della nota casa di prodizione giapponese.

Abile e astuta, matura e corrucciata, con i codini all’insù, sveglia e dal forte carisma. Un’orfana non completamente in linea con le protagoniste delle pellicole Ghibli, personaggio comunque che è molto più di ciò che sembra.

A non funzionare è lo script, sicuramente imperfetto nella gestione delle informazioni, per quel suo ribadire ciò che le immagini riescono benissimo ad illustrare da sole. Per quel suo dimenticarsi la backstory, un segreto utilizzato in corso d’opera per creare attesa che alla fine rimane nell’ombra, lasciando l’amaro in bocca.



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