La “narrastorie” Wadia racconta una donna dall’identità sdoppiata fra l’India e l’Italia

Esce domani “Il giardino dei frangipani” (Oligo), nuovo romanzo della scrittrice di Bombay trapiantata a Trieste



Preferisce dirsi “narrastorie”, Laila Wadia, l’autrice indiana ormai triestina d’adozione. Ed effettivamente è un appellativo adeguato, c’è in Wadia la passione dell’affabulazione, il gusto di un macrocosmo rigenerato da tanti spazi, profili, luoghi che vanno a compilare un unico mondo. Ma appunto, nessuno dei mondi che ci restituisce nella sua scrittura ha una struttura rigida, Wadia non racconta mai un’unica storia.

È anche il caso de “Il giardino dei frangipane” (Oligo Editore, pagg. 272, euro 16,90), un romanzo - da domani in libreria - segnato dal doppio, sia geografico che identitario. La protagonista è Kumari, cresciuta in un orfanatrofio incorniciato da un giardino (quello del titolo), dove vive i suoi primi anni di vita e anche il trauma che segnerà il suo destino emotivo. Siamo a Bombay, una città per niente esente dal tema del romanzo, una Bombay doppia, vista nei suoi aspetti bollywoodiani e negli anfratti più nascosti di sporcizia e miseria.

Kumari riuscirà ad andarsene, ha un talento creativo notevole per le stoffe e la sartoria, tanto da essere notata da un imprenditore italiano. Vola a Roma, poi a Milano, fa una carriera rapida, diventa stilista, soprattutto diventa italiana. Assume insomma stile e costumi del Belpaese, oltre alla lingua, si fa degli amici, soprattutto uno, Giorgio, che la ama come una sorella. Tornerà in India in occasione di un funerale, non per rendere omaggio al defunto, al contrario, per liberarsi del suo fantasma. Ed è qui che l’autrice, nonostante tracci il profilo di una migrante più che integrata, ci riporta tempestivamente a quelle radici che non possono essere dimenticate. Il viaggio sarà l’occasione per incontrare persone vecchie e nuove, per rivisitare luoghi, constatare che ne è stato del suo antico orfanatrofio, la fine di alcune compagne d’infanzia, la follia che può causare la sofferenza, soprattutto quando non c’è nessuno a difenderti e soprattutto quando sei donna. Così passano in rassegna vari profili femminili, quasi tutti “abusati”, la stessa protagonista, anche se in modo meno traumatico rispetto all’infanzia, sarà di nuovo vittima di una discriminazione tutta maschile.

Merito del romanzo, quanto a disparità, è saper evidenziare la questione in diversi ambiti (sociale, sentimentale) a prescindere dalla razza d’appartenenza, a oriente come a occidente. Spassosi i dialoghi, per esempio, che Kumari intrattiene durante una sfarzosa festa nel lussuoso Hotel Taj Mahal (lo stesso degli attentati del 2008), per tracciare un deprimente affresco della filosofia finanziaria dei nuovi indiani. Nonostante ciò è lì, in India, che Kumari apprende il suo doppio profilo, la sua duplice identità e ogni vicenda l’avvicina alle sue radici.

Il romanzo inoltre ha un cuore preciso, il cimitero cristiano di Sewri – sempre a Bombay – spazio simbolico dell’intreccio tra Italia e India, dove trovano riposo infatti molti prigionieri di guerra italiani. Kumari ricostruirà in quel luogo un finissimo ordito di tante trame e identità. Non solo la sua, ma di molti altri personaggi. Una zona limbica in cui Wadia può ben dirsi narra-storie, perché da quel perimetro si chiarisce il trascorso degli altri protagonisti, ogni capitolo è dedicato alle vicende di ognuno, una costellazione identitaria che coniuga tutti i destini del romanzo.

Tutti hanno un passato tragico, ma non è certo un romanzo nichilista, anzi: «Fate che i vostri sogni siano così grandi da spaventarvi», scrive Wadia. È comunque l’identità il centro del libro, non solo quella territoriale, tutto parte dalla complessità di un’identità mancata, orfana appunto, e dalla consapevolezza che anche il dolore traccia la sensibilità di un paese: «L’accezione occidentale dell’amore implica l’accudimento; l’Oriente, nella sua infinita saggezza – frutto di infinita sofferenza – incoraggia a liberarsi da ogni attaccamento». Per cui per chi è spezzato tra queste due filosofie può ben concludere, infine, che: «L’amore è anche dirsi addio». —

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