La ribelle Tina Modotti sognava una fotografia fatta solo di storie vere

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Non era la bambolina che poteva piacere a Hollywood. E nemmeno l’artista disposta a trascurare la realtà per immergersi totalmente nelle proprie fantasie. Tina Modotti sognava di fare della propria vita un intreccio perfetto tra creatività, impegno politico e perché no, anche amore. Visto che nel suo mondo avevano trovato posto uomini importanti, come il fotografo americano Edward Weston e il “giaguaro” del comunismo internazionalista, il triestino Vittorio Vidali.
E proprio Weston ha giocato un ruolo di primo piano nella vita di Tina Modotti. Basta leggere la selezione di lettere che l’artista friulana scrisse al fotografo americano, tradotte ex novo e curate da Francesco Cappellini nel libro “Irrecuperabile ribelle”, che esce pubblicato dalle preziosi edizioni Via del Vento (pagg. 43, euro 4).
Aveva una carriera da diva di Hollywod spalancata davanti a sé, Tina Modotti, quando incontrò Edward Weston. La passione per quell’uomo spinse l’attrice nata a Udine il 17 agosto del 1896 a mollare il suo primo compagno, Roubaix de l’Abrie Richey detto Robo, pittore e poeta originario del Quebec. E a chiudere anche con il cinema muto, che l’aveva lanciata sui grandi schermi nei panni di sensualissime gitane e odalische in film come “The tiger’s coat” di Roy Clements.
Ma Tina Modotti non poteva rinunciare ai propri sogni. Neanche per Weston, suo maestro di fotografia oltre che amante. Il 17 settembre del 1929 gli scriveva dal Messico: «Ogni volta che la parola “arte” e “artistico” vengono applicate al mio lavoro fotografico, provo una sensazione sgradevole. Certo, questa è una conseguenza del cattivo uso e abuso che viene fatto di queste parole». Il problema era che lei non apprezzava «la maggior parte dei fotografi che cerca ancora effetti “artistici” imitando altri mezzi o espressioni grafiche».
Vita e arte erano una cosa sola, per Tina Modotti. E allora non stupisce sentirle confessare a Weston che «la fotografia, proprio perché può essere prodotta solo in quell’istante e perché si fonda su ciò che oggettivamente esiste davanti all’obbiettivo, costituisce il mezzo più soddisfacente per registrare la vita vera in tutti i suoi aspetti, e da ciò deriva il suo valore documentario».
Mani, oggetti, volti di donne, corpi di lavoratori: questo era l’orizzonte su cui si posavano gli occhi di Tina fotografa. Ma lei, si sa, non poteva rinunciare all’impegno politico. Iscritta al Partito Comunista del Messico già nel 1927, la Modotti finirà per essere sospettata di aver ordito un attentato al presidente Rubio. Pochi mesi dopo che il suo nuovo compagno, il rifugiato cubano Julio Antonio Mella, era stato assassinato davanti a lei.
Ancora Weston era, in quel momento, il suo punto di riferimento: «Penso che a questo punto tu sappia tutto quello che mi è successo, sono stata in prigione per 13 giorni e quindi espulsa». Ricordandogli che l’avevano arrestata per «la mia partecipazione all’ultimo attentato al nuovo Presidente», gli chiedeva se riusciva a «immaginarmi come una terrorista, come il capo di una società segreta di bombaroli o che so io». Non si soffermava troppo a piangere, però, Tina Modotti. Citando Friedrich Nietzsche, si diceva sicura che «quel che non mi uccide, mi rende più forte».
Morirà da sola, la notte del 5 gennaio del 1942, a bordo di un taxi a Città del Messico. Dov’era tornata per sottrarsi alla destinazione Mosca, suggerita da Vidali. Lei, il patto firmato dall’Urss con la Germania nazista non riusciva a digerirlo. «Io con Hitler? Mai», fu il commento dell’irrecuperabile ribelle Tina.
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