La selva oscura in prosa è una spinta al romanzo

Francesco Fioretti riscrive l’Inferno di Dante e spiega perché
Di Francesco Fioretti

di FRANCESCO FIORETTI

La selva oscura, la riscrittura in prosa romanzesca dell'Inferno di Dante, che ho elaborato durante più o meno tutto il 2014, è uscita nei primi mesi del 2015, inaugurando una gran messe di pubblicazioni che hanno inteso, ciascuna a suo modo, onorare il settecentocinquantesimo "compleanno" dell'autore della Commedia. È ancora presto per stilare bilanci, anche se una prima idea dei giudizi del pubblico è già possibile farsela attraverso le recensioni online - in tempo reale, come piace dire - dei lettori. Che il libro potesse essere molto apprezzato da un pubblico di fruitori potenziali del più grande capolavoro letterario del Medioevo europeo - fruitori potenziali scoraggiati d'altra parte dalla difficoltà dell'impatto con la lingua trecentesca - era facile metterlo in conto. Forse era altrettanto facile, però, mettere in conto anche una certa ritrosia della critica accademica e dei lettori forti, generalmente armati già in proprio dell'attrezzatura che serve ad affrontare la lettura diretta del testo dantesco, e spesso perciò diffidenti per natura nei confronti di certa divulgazione che, pur di mettere il genio alla portata di tutti, può facilmente banalizzarlo e sfrondarne in qualche modo gli allori.

Ragion per cui nella maggioranza di voci tra il favorevole e l'entusiasta (gente che ha scoperto per la prima volta - e me ne ripago - il continuum della narrazione dantesca, rimanendone immancabilmente affascinata), si registra anche qualche lamento, quasi sempre però di non lettori, che criticano non i risultati, ma l'operazione in se stessa, quasi così a motivare la scelta preventiva di non leggere il libro - magari di spulciarlo prevenuti qua e là, nei canti che già sapevano a memoria, e di riporlo scettici su un ripiano qualsiasi di una loro qualsiasi libreria. Persino a Fahrenheit con la Lipperini m'è parso di notare tra le righe un atteggiamento di sufficienza di questo genere - magari invece no, mi sbaglio -, tra la taccia di profanazione e l'ovvia constatazione che la prosa perde tutta la musicalità dei versi danteschi - talmente ovvia, la constatazione, da cogliermi in quell'occasione totalmente alla sprovvista.

A nessuno è venuto in mente che l'operazione, ben più che da mere finalità divulgative - e ben lungi da intenti profanatori - potesse essere animata invece dall'intenzione assai meno scontata, ma a mio avviso più feconda, di attingere alla lingua di Dante per arricchire quella della nostra narrativa, visto che noi lettori odierni ci nutriamo - statistiche delle vendite alla mano - di un buon 97% di prosa e di appena un 3% di versi (compresi quelli danteschi), e che ciò nondimeno (o proprio per questo) la nostra prosa tende sempre di più verso la piattezza così poco sfumata (lessicalmente ricca, ma emotivamente povera) dell'italiano neostandard. Insomma che nella vera e propria battaglia - di cui sono stato testimone per un annetto nell'affollata solitudine del mio scrittoio - tra Dante e il romanzo, più che a impoverire Dante abbia voluto mirare, nei limiti ben inteso delle mie capacità, ad arricchire la lingua già stantia del nostro romanzo moderno (a mio vantaggio nel caso, se altro scriverò, ma anche eventualmente del lettore interessato a questo genere di sfide linguistiche).

Perché altrimenti niente di più sterile che piangersi ancora addosso per la nostra plurisecolare tradizione troppo lirica, per l'altrettanto secolare (e annessa) questione della lingua letteraria, per il povero Manzoni che scriveva e riscriveva il suo unico romanzo mentre in Francia tra Balzac, Hugo e Dumas padre ne sfornavano a valanghe, e per il fatto miserevole che ce ne trasciniamo dietro gli strascichi fino ai tempi nostri, se è vero che (Deledda a parte) non vinciamo Nobel che per la poesia (Carducci, Quasimodo, Montale) e il teatro (Pirandello, Fo); mentre invece abbiamo alle nostre spalle dei veri e propri giganti della narrativa, tra Dante e Ariosto, solo che si tratta quasi sempre di narrativa in versi, e non dovremmo fare altro che riappropriarcene, a partire dalla stessa scrittura, o "riscrittura", delle loro opere. (....)

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