La strage dei disabili che la psichiatria non ha voluto vedere
Che la psichiatria sia vittima di amnesia, una patologia che in genere si preoccupa di curare, suona come una contraddizione in termini. Eppure è proprio ciò che è successo nel caso dello sterminio...

Che la psichiatria sia vittima di amnesia, una patologia che in genere si preoccupa di curare, suona come una contraddizione in termini. Eppure è proprio ciò che è successo nel caso dello sterminio di massa avvenuto nella Germania nazista e proseguito quasi fino alla fine degli anni ’50 ai danni di handicappati, bambini disabili, schizofrenici cronici. Gli psichiatri hanno rimosso questa tragica vicenda: c’è voluto quasi mezzo secolo prima che se ne parlasse in un convegno internazionale.
È stato Michael von Cranach, direttore di un istituto psichiatrico nei pressi di Monaco di Baviera, a scavare per la prima volta negli archivi dell’ospedale in cui lavorava per far riemergere questa storia, che fu presentata per la prima volta nel 1999, al Nono Congresso Mondiale di Psichiatria ad Amburgo. Lo psichiatra tedesco che non volle chiudere gli occhi sarà a Trieste, al teatro Miela, oggi alle 20.30, per la proiezione del film di Kai Wessel “Nebbia in agosto”, uscito nel 2016 e per la prima volta proposto su uno schermo cittadino (a ingresso libero).
La pellicola racconta questo sterminio collettivo, che coinvolse 70mila bambini e 200mila pazzi cronici, attraverso una storia individuale, quella di Ernst Lossa, bambino tedesco, zingaro di minoranza Jenisch, ritenuto insufficiente mentale e ucciso con un’iniezione letale a 14 anni, dopo aver resistito più di sei anni ai tentativi di esecuzione. Il film è basato su una storia vera, accaduta nella Germania del Sud, all’inizio degli anni ’40. Ernst è un ragazzino orfano di madre, molto intelligente ma disadattato. A causa della sua natura ribelle è stato giudicato "ineducabile" e confinato in un'unità psichiatrica, dove grazie alla sua simpatia e intelligenza riesce a ingraziarsi infermieri e aguzzini, resistendo a violenze e vessazioni finché una diligente infermiera decide di eseguire l’ordine e mettere fine alla sua vita.
Nella realtà tutto comincia nel 1920, quando Karl Binding e Alfred Hocke, il primo professore di diritto penale a Lipsia e il secondo di clinica psichiatrica all’Università di Friburgo, danno alle stampe “Die Freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens” (Il permesso di annientare vite indegne di vita). Il giurista e lo psichiatra affermano che la vita degli handicappati, dei bambini disabili e degli schizofrenici cronici negli ospedali psichiatrici è una vita indegna. Dunque la loro uccisione non costituisce crimine, ma è un atto medico consentito e lecito. Il testo diventa la base per l’istituzione di una macchina terribile e inumana che sperimenta le pratiche dello sterminio, aprendo le porte ai lager. «Ciò che accadde in quegli anni rappresenta forse il momento di maggiore espressione della psichiatria biologica, dell’eugenetica e del sogno di bonifica umana - commenta Peppe Dell’Acqua, che con Roberto Mezzina, neodirettore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asuit, ha voluto inserire questo appuntamento tra gli eventi collaterali del convegno internazionale sulla salute mentale “The right (and opportunity) to have a (whole) life” -. È recente il maldestro tentativo di recuperare le neuroscienze e la genetica a sostegno dell’oggettiva presenza di determinanti biologici che sarebbero responsabili della malattia e della possibilità o meno di guarigione. Nelle pratiche odierne ancora una volta l’incontro scellerato di una biologia psichiatrica e di una giurisprudenza alla ricerca di parametri oggettivi per misurare l’umana sofferenza, rischia di produrre disastri. È del tutto evidente - conclude Dell’Acqua - che occorre ricordare quanto accaduto come monito per l’oggi, per saper riconoscere la matrice pericolosa di un certo tipo di ragionamento».
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