La vita vista da Valentino Zeichen con gli occhi di tre uomini inutili

di Alessandro Mezzena Lona
Erano inetti i personaggi di Italo Svevo. Uomini inadeguati a vivere bene l’amore, a gestire la vita, a farsi strada nel lavoro. Borghesi incapaci di sognare che il secolo nuovo, il ’900, potesse spalancare per loro grandi opportunità di cambiamento. Nemmeno la “persuasione” di Carlo Michelstaedter sarebbe risultata la cura giusta per guarire le ferite dell’anima, visto che il filosofo goriziano si sarebbe tolto la vita sparandosi un colpo di rivoltella a 23 anni, nel 1910. Quando il secolo breve non aveva ancora messo in scena tutto il suo repertorio di incubi e orrori.
Adesso che il terzo millennio ha già lasciato per strada il suo primo assaggio di delusioni e schifezze planetarie, come si possono sentire i personaggi di Valentino Zeichen? Condannati all’inutilità, naturalmente. Spiazzati da un tempo che accompagna al concetto d’arte l’immagine prosaica di un vassoio di tartine che trasudano grassa maionese. Di un mondo che nasconde la propria ignoranza profonda dietro il nulla di frasi messe assieme solo per stupire. Come quella che il poeta cita, a mo’ di sberleffo per niente mascherato, all’inizio del suo primo romanzo “La Sumera” (pagg.155, euro 16) che Fazi Editore manda nelle librerie domani.
Inscenando un’improbabile discussione sulle arti figurative, Zeichen si mette a fare le linguacce ai troppi critici-venditori-di-fumo. E piazza nel testo una parodia indimenticabile del loro linguaggiuo ripieno di nulla: «Un progetto di significazione del segnico individuato nel materico ormai archeologico nel divenire della pittura moderna».
Ed è proprio seguendo le tracce di tre uomini che, agli occhi di tutti noi, non possono che apparire inutili, che il poeta nato a Fiume, esule in Italia con la sua famiglia, romano d’adozione, ha deciso di firmare quella che è la sua prova narrativa di debutto. Anche se lui, da tempo, è considerato uno dei più importanti autori di versi in Italia grazie a raccolte di liriche come “Area di rigore”, “Ricreazione”, “Museo interiore”, “Metafisica tascabile”. L’anno scorso Mondadori ha pubblicato negli Oscar un’ampia scelta delle sue opere.
Ivo, Mario e Paolo vivono le loro giornate abbandonandosi al pedinamento di belle ragazze, alle fantasie amorose da consumare con i loro corpi, agli amori impossibili in una Roma delimitata tra la via Flaminia e la Galleria d’Arte Moderna. Si guardano attorno con grande straniamento in un tempo in cui la musica ha dato il via a un consumo bulimico nei ridondanti cartelloni di concerti. In cui la pittura ha smarrito il senso della realtà, affidandosi alla capricciosa capacità dei critici di promuovere o bocciare chi fa comodo a loro. E dove perfino il mestiere di vivere è diventato fiacco ripetersi di gesti privi di senso. Perché, dicono i personaggi di Zeichen, «siamo stati asserviti nella vita al ruolo dell’inutilità».
E allora il poeta va a cercare il senso, impossibile, dell’esistere dentro dialoghi minimi. Fraseggi apparentemente trascurabili. Ma che hanno la forza del giudizio inappellabile che emette chi si è autocondannato a stare ai margini. Come capitava con certi personaggi dei racconti più esoterici e geniali di Tommaso Landolfi. Figure destinate al fallimento, scalcinati filosofi incapaci di attirare anche il meno pretenzioso tra i discepoli. Erotomani felliniani che non smettono di vedere nel corpo della donna un intervallo di riposo tra tante domande a cui non c’è mai risposta.
Raccontando con parole precise e immaginifiche la vita provvisoria dei tre amici Ivo, Mario e Paolo, per cui il tempo sembra restringersi, rallentare, anche se la parte migliore dell loro vita è forse trascorsa, Zeichen avvolge il lettore in una ragnatela di soigni fallimentari che ruotano attorno alla figura di una donna inafferrabile. Una Sumera senza nome, un’icona del desiderio mai appagato fino in fondo, che fa girare la vita dei tre scioperati come se non ci fosse altro motivo al mondo per cui valga la pena svegliarsi ogni mattina.
Graffiante, a tratti grottesco, il romanzo di Zeichen imprime le stigmate del dramma sulla pelle della commedia. Perché chi si illude di incamminarsi sulla strada della felicità, prima o poi si scopre infelice. E consuma in fretta gli incontri, l’amore, l’instancabile chiacchiericcio, nel terrore di essere niente.
alemezlo
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