La vittima innamorata del suo aguzzino la vera storia della sindrome di Stoccolma



Il 23 agosto del 1973, Jan-Erik Olsson tentò di rapinare la filiale della Kreditbanken, nel centro di Stoccolma, in Svezia. Le cose non andarono secondo i piani e Olsson restò bloccato nel caveau della banca per cinque giorni, con un complice e quattro ostaggi. I racconti degli ostaggi liberati e i resoconti sui loro rapporti con i due rapinatori portarono alla nascita dell’espressione “sindrome di Stoccolma”: una situazione paradossale in cui la vittima di un rapimento finisce per solidarizzare con il suo sequestratore. “Rapina a Stoccolma” racconta la nascita della celebre “sindrome”, ispirandosi ai fatti realmente accaduti.

Il regista canadese Robert Budreau, dopo aver trasformato Ethan Hawke in Chet Baker nel biopic “Born to Be Blue”, affida all’attore il ruolo di un rapinatore che fa irruzione in una banca e prende alcuni ostaggi. Tra loro, anche Noomi Rapace, timida segretaria che viene colpita dalle attenzioni e dalla natura di quello che dovrebbe essere il suo nemico.

Crime comedy che spinge l’acceleratore sul secondo elemento, soprattutto grazie alla verve (a tratti esasperata) di Ethan Hawke, cappellaccio texano e baffoni, umorismo nero e sentimento tragico, sulle note dei più celebri pezzi di Bob Dylan. Presentato al Tribeca Film Festival, il film scritto e diretto da Robert Budreau non manca di un piglio ironico, con un protagonista bonario e pasticcione, goffo e impacciato, che per le sue imprese si ispira a Butch Cassidy e a Sundance Kid. Ribalta i codici dei più tradizionali heist movies (da noi, i “film del colpo grosso”), punta piuttosto su godibili riferimenti alla cultura pop e su un’accurata ricostruzione storica.

Siamo nella Svezia degli anni Settanta, la trama si sovrappone al fatto realmente accaduto. Lars Nystrom, criminale recidivo in libertà vigilata, ha un piano: negoziare la liberazione dell’amico fraterno e compagno di malefatte Gunnar Sorensson (Mark Strong) e fuggire con lui e un paio di ostaggi – preferibilmente due belle donne – a cavallo di una Mustang con una borsa piena di contanti. A mettergli i bastoni tra le ruote, un convincente Christopher Hayerdahl, nei panni del comandante della polizia Mattson, che non ha alcuna intenzione di lasciarsi scappare la coppia di eccentrici criminali.

Film godibile, ma non senza difetti. “Rapina a Stoccolma” dimentica completamente le psicologie. Quelle degli ostaggi, in primis, dei quali non si respira l’inevitabile e logorante angoscia. Quella dei villain, troppo presi a caricare i loro personaggi. Insomma, difficile prenderli troppo sul serio, neppure nei passaggi che avrebbero dovuto creare il massimo della tensione. Interessante, invece, la ricostruzione d’epoca, l’attenzione che Budreau presta alla politica del 1973, a un mondo in cui l’America conservatrice di Nixon usciva dal Vietnam, e in cui in una Svezia ancora molto socialdemocratica si respirava un clima paranoico, a detta del regista, «non molto dissimile da quello che si avverte nell’era Trump». Tra i punti di forza, la curiosa “sindrome” studiata dopo la rapina del 1973 e documentata da Daniel Lang in un articolo sul New Yorker, intitolato “The Bank Drama”. Vero e proprio punto di riferimento dello script e garante dell’esattezza dei fatti narrati. —





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