L’amica geniale, straordinarie Lenù e Lila in una Napoli da “neorealismo magico”

venezia
Il fenomeno Elena Ferrante, chiunque sia a celarsi dietro questo pseudonimo, travalica da ormai un quarto di secolo i confini dell'editoria, confermandosi molto divisivo: generalmente o la si adora o la si detesta. Diciamo che sinora il cinema non le ha dato una grande mano in termini di qualità: “L'amore molesto” di Mario Martone (1995) non è certo tra i titoli migliori del regista partenopeo, per non parlare de “I giorni dell'abbandono” (2005) di Roberto Faenza, imbarazzante concentrato di tutti i più logori luoghi comuni del nostro cinema.
Comprensibile dunque l'apprensione con cui era atteso ora “L'amica geniale” di Saverio Costanzo, primi due capitoli di una serie televisiva in otto parti che vedremo su Rai1 in autunno, coproduzione HBO-Raifiction-Fandango ricavata dal romanzo omonimo del 2011, volume iniziale di una quadrilogia. L'apprensione era giustificata anche dall'andamento pericolosamente oscillante della pur breve filmografia del regista romano: che fulminò tutti nel 2004 con il suo esordio “palestinese” Private, indietreggiando un po' nei manierismi del successivo “In memoria di me” (2007), per naufragare nel ridicolo involontario con “La solitudine dei numeri primi” e soprattutto “Hungry hearts” (2010 e 2014).
“L'amica geniale” costituisce invece una piacevole sorpresa che restituisce al regista originalità stilistica riscattandolo dalle banalità delle ultime prove. La vicenda è nota e riassume le tematiche care all'autrice: Napoli, l'autobiografismo, la memoria, l'indagine sulle psicologie femminili. Tutto inscritto in un lunghissimo flashback dell'ormai anziana Elena che, a fronte dell'improvvisa e inspiegabile scomparsa della sua amica di una vita Lila, decide di scrivere la storia di questo legame conflittuale iniziato fra i casermoni della periferia anni '50. Guidati dalla voce off di Alba Rohrwacher, un po' fastidiosa anche perché non sincronizzabile con un io narrante della terza età, facciamo così la conoscenza di Lenù e Lila, contrapposte in tutto: “brava bambina”, bella e bionda, diligente e studiosa la prima; ribelle, bruna e arruffata, litigiosa, ma con una mente folgorante la seconda. Sullo sfondo, due famiglie che riproducono noti stereotipi meridionali del disagio (padri violenti e autoritari, madri succubi o complici, fratellini da accudire), un quartiere difficile dominato da un boss patriarcale (è Antonio Pennarella, quello di “Un posto al sole”, qui alla sua ultima interpretazione), i primi turbamenti amorosi, e un substrato di violenza che tuttavia, nella intelligente sceneggiatura di Costanzo insieme a Laura Paolucci e Francesco Piccolo, non si erge mai a trattrato psicologico o peggio comizio ideologico, ma rimane sullo sfondo come ombra incombente sui destini delle protagoniste.
In realtà la carta vincente dell'operazione è la tonalità, anche cromatica (splendida la fotografia leggermente seppiata di Fabio Cianchetti) ma soprattutto narrativa, che Costanzo individua dall'inizio e riesce a conservare intatta per tutta la narrazione: una specie di “neorealismo magico”, che non alza mai la voce, sbalza felicemente alcuni personaggi (la maestra lungimirante) e si tiene stretto alle due piccole, straordinarie protagoniste (Elisa Del Genio – non è uno scherzo – e Ludovica Nasti) con affettuosa prossimità. Sorretto anche dalla musica “alta” di Max Richter e da un ritmo mai fiacco o sopra le righe, “L'amica geniale” si segue alla fine con trepidazione, attendendo i seguiti – anticipati in una clip – in cui Lenù e Lila conosceranno l'adolescenza e oltre, con i conflitti e le scoperte che la vita porta. —
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