“L’amore che dura” secondo Lidia Ravera ha un montaggio da film

La recensione
Vivere un amore pieno, totalizzante, fusionale in anni magici in cui tutto sembrava a portata di mano e il mondo poteva ancora essere cambiato. E illudersi di ripercorrere quella pienezza perduta attraverso le immagini di un film, fermando in quei fotogrammi un tempo ormai deformato dalla distanza. Così come si parla di cinema, con veri nomi e cognomi di produttori e direttori di festival italiani, hanno un montaggio cinematografico anche la costruzione e il ritmo di “L’amore che dura” (Bompiani, pagg. 416, euro 18), il nuovo romanzo di Lidia Ravera dopo la felice incursione nella terza età di “Il terzo tempo”. Giocando attraverso piani temporali diversi il nuovo testo dell'autrice torinese, opera numero 29 in una sequenza che ha avuto inizio nel '76 con il dirompente “Porci con le ali”, abbraccia le diverse età dei due protagonisti attraverso le tante fasi del loro amore: crescente, calante, in sonno apparente. Nel farlo, riflette sulle conseguenze amare che le cose non dette per un ipotetico “fin di bene” possono generare, col risultato beffardo di ingannare se stessi prima che gli altri, e su come “l’amore che dura” si possa trasformare nel tempo assumendo forme nuove ma non meno intense.
Tutto inizia da un incontro che vorrebbe essere riparatore di un piccolo e di un grande torto. Lei è Emma, un'appassionata vicepreside cinquantenne di una scuola di borgata romana innamorata dei suoi «figli per finta», che segue con coraggio e abnegazione. Ha un compagno, Alberto, sindacalista rigoroso che la ama, e una figlia dal curioso nome, Franny come la protagonista di un romanzo di Salinger, che studia in Giappone. Ma prima, per Emma, c'è stata un'altra vita, densa, appagante: vent'anni d'amore con Carlo. Terminata perché lui, regista, sognava in grande, New York e il cinema dei grandi numeri. Ed è “arrivato”, cineasta di successo perfettamente inserito nei circuiti più in della Grande Mela. Ha girato un film, “Kids”, che sta venendo a presentare alla Festa del Cinema di Roma, invitato da Antonio Monda e atteso dal produttore – noto per i film di Nanni Moretti - Angelo Barbagallo. Emma però non ha gradito vedere il loro amore rievocato – e con quale nostalgia! - sul grande schermo: «io la nostra storia la porto addosso, e non cerco neppure più di liberarmene. Tu hai voluto farne spettacolo». Un film che le è stato indigesto, e che ha pesantemente stroncato sulla rivista online dove scrive. Ma se il piccolo torto è questo, il grande, come scrive la stessa Emma nei suoi diari, è di ben altro peso e ha condizionato tutta la sua esistenza. Adesso vorrebbe confessarlo. Come? Andrà all’appuntamento proprio con quei quattro quaderni che raccontano, finalmente, la verità per troppo tempo taciuta.
Qualcosa, inutile dirlo, impedirà l'incontro. I diari fungeranno allora per Carlo come strumento lungo il cammino per la conoscenza e all'autrice per permettere di muovere dinamicamente l'azione avanti e indietro nel tempo, proprio come una sceneggiatura: una continua intersezione di flashback che si snodano tra diverse epoche, a iniziare dal '76, anno dell'inizio del loro amore di adolescenti, poi nel '96, nel 2006 fino al 2016, il presente del mancato incontro. Espediente non troppo originale, va detto, quello dei diari da cui trarre la verità nascosta, come pare inverosimile che Franny, sveglia e più matura dei suoi 19 anni, sia all'oscuro della relazione ventennale della madre, come se la vita di Emma fosse iniziata a 36 anni sposando Alberto e partorendo lei, in anni in cui i figli si facevano molto prima. Resta la riflessione acuta e sensibile tipica dell'autrice - affettuosa ma cinica, spesso spietata, comunque ferocemente ironica - sui sentimenti, sviscerati talvolta all'esasperazione. Come sul maestoso, imprescindibile potere femminile e sulla maternità con le fulminanti zampate cui Ravera ci ha abituato, che fa dire a un personaggio frasi come «le donne sanno di essere madri con la verità dei loro corpi, gli uomini sanno di essere padri se ricevono una telefonata». —
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