L’arrivo del vescovo Santin nel reportage mai visto del fotografo Francesco Penco
Nel settembre del 1938 l’insediamento del presule trasferito da Fiume

trieste Baionette protese verso il cielo, stivaloni, saluti romani, divise nere e abiti talari schierati tra le pensiline della Stazione Centrale e viale Regina Elena. E poche ore più tardi l’abbraccio appassionato dei cattolici triestini accorsi in massa sul colle di San Giusto.
Sono questi gli opposti scenari – entrambi accompagnati da uno scampanio festoso - con cui Trieste tra il 3 e il 4 settembre 1938 accolse monsignor Antonio Santin, il nuovo vescovo della città.
Le due opposte modalità di benvenuto sono testimoniate visivamente da una serie di fotografie scattate su uno stesso rullo da 36 pose da Francesco Penco.

Queste immagini con buona probabilità rappresentano un inedito “reportage” rimasto nascosto per quasi 80 anni.
Non risulta che le fotografie delle due cerimonie siano state pubblicate su giornali o libri; dalle ricerche è emerso anche che queste immagini non sono presenti negli archivi e nelle collezioni in cui è conservata la “memoria” visiva di Trieste. Quasi nessuno le ha viste perché il rullo ritrovato è un “negativo” di cui Francesco Penco non ci ha lasciato delle stampe su carta. O se le ha lasciate, sono scomparse o fatte scomparire.
Ora invece queste storiche fotografie sono ritornate alla luce nell’ambito di una ricerca che da anni cerca di ricomporre l’opera del fotoreporter e cine-documentarista triestino della prima meta del Novecento. Francesco Penco ha fotografato il tragico sciopero dei fuochisti del Lloyd, i funerali di Francesco Ferdinando, assassinato a Sarajevo, le barricate di San Giacomo, gli ultimi scontri della guerra e l’entrata in città delle truppe del maresciallo Tito.
Il rullo che documenta l’arrivo del vescovo Santin a Trieste era rimasto sepolto tra altre “carte” appartenute a Gisella Mauri, compagna di lavoro e di vita di Francesco Penco, nonché sua principale erede. Dopo il decesso della fotografa, l’archivio, gli apparecchi e le attrezzature presenti nel suo studio di viale Terza Armata, erano state suddivise tra i suoi parenti: un fratello di Gisella Mauri ha conservato lastre e film in una cantina di Ponziana. Infine le ha consegnate a un nipote della fotografa che le ha ritrovate nel corso di uno dei “riordini” della propria abitazione. Fin qui il percorso carsico del negativo. Ora ne guardiamo i contenuti.
La prima parte del reportage sull’arrivo del monsignor Santin a Trieste è stata realizzata nel pomeriggio del 3 settembre 1938. Mancavano pochi giorni alla visita di Benito Mussolini alla città che da un paio d’anni era priva di un vescovo titolare della cattedra di San Giusto. Monsignor Luigi Fogar, dopo prolungate “frizioni” e polemiche col regime fascista, era stato allontanato da Trieste il 30 ottobre 1936 per assumere a Roma la carica di arcivescovo di Patrasso, una Diocesi virtuale, priva di fedeli e di fatto inesistente. E di conseguenza le “sedi vacanti” di Trieste e Capodistria erano state affidate a un amministratore apostolico, il vescovo di Gorizia Carlo Margotti.
I contatti riservati tra il Vaticano e il governo fascista si erano protratti a lungo per individuare un presule “adatto” a rispondere tanto alle esigenze del regime quanto a quelle dell’apostolato e dell’educazione religiosa. Molti fedeli della Diocesi di Trieste e Capodistria pregavano da sempre in lingua slovena, la stessa che parlavano a casa, scrivevano suoi quaderni a scuola e leggevano su giornali e libri; parroci e sacerdoti predicavano nella stessa lingua. Al contrario il fascismo “di confine”, diventato potere statale, aveva cercato con la violenza e con le leggi di sradicare queste tradizioni, privando un intero popolo della propria lingua. Monsignor Luigi Fogar si era schierato più volte a difesa della comunità cattolica slovena e aveva resistito alle pretese e alle imposizioni del duce e dei suoi sulla vita religiosa. Per questo lo avevano cacciato: ma il vuoto istituzionale andava colmato prima dell’arrivo del Duce a Trieste e la scelta fin dal maggio precedente era caduta sul vescovo di Fiume Antonio Santin.
Sui quotidiani dell’epoca sono chiaramente citati quali fossero i “meriti” che portarono a questa scelta. Sul“Il Piccolo”del 3 settembre 1938 compare un articolo biografico sul presule istriano e in cui fra l’altro si legge che “Santin si educò lo spirito e si formò il carattere che lo trovano oggi in perfetta corrispondenza con la situazione politica dei nostri tempi gloriosi, nello spirito della intelligente collaborazione tra la Chiesa e lo Stato Fascista”. E l’anonimo cronista scrive ancora, riferendosi al suo incarico a Fiume, che “in un ambiente difficilissimo, dalle inveterate influenze massoniche, perché nel Regno dì Ungheria la Massoneria non soltanto era permessa, ma godeva alta autorità; in una città che era diventata una fucina di divorzi, e quindi religiosamente e moralmente caduta molto in basso, il Vescovo Santin sollevò il problema dello spirito riuscendo a interessare gli sbandati e i disorientati. Nello stesso tempo intensificò la cura d’anime tra gli umili, istituendo otto nuove parrocchie, inaugurando due nuove chiese”.
“Oltre a questa intensa attività di apostolato - si legge ancora - monsignor Santin precisò l’opera sua di efficace di collaborazione allo Stato, quando il Governo fascista esortò anche il clero italiano a partecipare alla battaglia autarchica del grano per redimere la Patria dalla soggezione all’estero. In questa azione monsignor Santin si distinse in modo tale che fra i duemila parroci di tutta l’Italia e i 60 vescovi premiati egli e il vescovo di Lipari, monsignor Re, furono insigniti della medaglia d’oro che ricevettero dalle mani del Duce, mentre il Re, conferiva a monsignor Santin anche il grado di Grande Ufficiale della Corona d’Italia”. Nelle sue memorie, o meglio nel libro “Al tramonto - ricordi autobiografici di un vescovo” stampato nel 1978 per le Edizioni Lint, Santin scrive del suo trasferimento da Fiume a Trieste. “La domenica di Passione trovai una lettera che mi annunciata il mio trasferimento a Trieste. Feci presente alla Sacra Congregazione il danno che derivava alla diocesi di Fiume dal mio allontanamento. A Trieste si poteva mettere un uomo nuovo. Il cardinale Rossi rispose che il Papa aveva disposto così e che quindi non vi era che da obbedire. E obbedii”. —
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