Lassù sul Monte Sabotino si costruirono mito e retorica dell’Italia dei simulacri

la recensione
Il centenario della Grande Guerra non è finito con le celebrazioni dell’armistizio dell’11 ottobre 1918 né con quelle del Trattato di Versailles dell’anno seguente. È esattamente di un secolo fa la traslazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria, mentre è del 1922 la designazione di quattro zone monumentali: sul Sabotino, sul San Michele, sul Pasubio e sul Grappa. Alle prime due Gaspari editore ha già dedicato due pubblicazioni, entrambe curate dal ricercatore goriziano Marco Mantini. Quella dedicata al San Michele è del 2016, mentre “La zona monumentale del Monte Sabotino” (pagg. 130, euro 19,50) esce nelle librerie domani.
Non si tratta - è bene dirlo da subito - di un altro testo volto a raccontare nel dettaglio i combattimenti che in quell’area si sono consumati, ma di uno strumento che permette al visitatore di ripercorrere le vicende del passato attraverso ciò che oggi, sul Sabotino, è possibile vedere. L’autore inizia allora la narrazione illustrando materiali inediti sulle prime opere di fortificazione da parte austriaca per passare poi ai lavori italiani, non ultimi quelli eseguiti dal celebre “Gruppo lavoratori Gavotti”.
La storia del Sabotino è infatti disseminata di monumenti e di simboli che Mantini, con precisione chirurgica, descrive, interpreta, decifra, svela. Archiviato il conflitto, quel teatro degli scontri più sanguinosi, è sempre più stato mitizzato, preso a pretesto dalla propaganda tanto fascista quanto comunista, e venerato quale autentico mito dell’italianità: di sicuro, ha finito per essere al centro della più fuorviante, autocelebrativa retorica, nemica di una corretta ricostruzione dei fatti. Ecco allora che un capitolo è dedicato a quella che Mantini definisce “la stagione degli obelischi”: insomma, a tutte quelle operazioni volte a far diventare il Sabotino un museo a cielo aperto, con lo scopo di onorare se stesso, rendendo il più possibile perenne la memoria degli scontri. Vengono allora erette colonne, edificati cippi e tracciate strade a sottolineare l’eccezionalità dei luoghi e a volerli connotare di un’aura sacrale. Ciò, peraltro, non solo sul Sabotino, ma in tutto il territorio che, secondo le intenzioni della politica, doveva sempre più vederlo quale un emblema del coraggio espresso nei ventinove mesi di lotta tra il Carso, la valle del Vipacco e le Alpi Giulie. Di obelischi e monumenti, così, se ne possono contare a decine e il libro ne contiene un ricco apparato iconografico, anche con immagini d’epoca a testimoniare il principio di un percorso destinato a eternare la memoria della guerra e di quei luoghi che entreranno prepotentemente nell’immaginario collettivo nazionale, pure con l’intento di farli divenire risorsa economica, come evidenziato nel capitolo sul “pellegrinaggio perfetto”.
E il testo presenta anche una tavola proprio con i principali pellegrinaggi compiuti nel 1919-1939 unitamente a una tabella con i maggiori manufatti commemorativi progettati o scomparsi in area carsica-isontina nel medesimo lasso temporale. A tal proposito, si può ricordare che pure un architetto di prim’ordine, Max Fabiani, venne incaricato di ideare un monumento alla Terza Armata da erigere in piazza Vittoria, sempre a Gorizia, per la sua riqualificazione del 1938: non se ne fece nulla. Intanto anche il Corriere della Sera e La Stampa riportavano cronache puntuali di ciò che sul monte veniva costruito per avviarne una leggenda che Mantini, proprio partendo dai simulacri e della costituzione della zona monumentale, riconsegna al lettore nella maniera più oggettiva possibile permettendogli, come osserva Marco Cimmino nella prefazione, di addentrarsi nella storia sociale e politica della Grande Guerra, non solo di quella legata all’Isontino. —
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