L’atelier di Emilia Manenizza l’imprenditrice innovativa che puntò sulla luce elettrica

il personaggio
Donna “di polso”, fotografa di successo, imprenditrice innovativa e punto di riferimento per molti fotografi maschi. Il nome di Emilia Manenizza compare sulla scena triestina degli atelier fotografici mezzo secolo prima delle sorelle Wanda e Marion Wulz. Gestisce da sola uno studio posto in piazza della Borsa dopo essersi affrancata dalla presenza del fratello Marco, anch’egli impegnato nello stesso settore. Insegna le regole della ripresa e dello sviluppo delle lastre a Ezio De Rota, Ugo Horn, Giovanni Cividini che qualche anno dopo gestiranno con successo propri atelier. È la prima a Trieste a dotare di illuminazione elettrica la propria sala di posa, liberandosi per sempre dalle bizze del maltempo e dalle ombre della sera. Di questa “novità” scrive il quotidiano triestino “L’indipendente” nell’edizione del 5 settembre 1904: “Abbiamo assistito sabato sera all’inaugurazione delle assunzioni fotografiche notturne fatte nello stabilimento fotografico Manenizza. Le assunzioni di notte si fanno mercè due potentissimi riflettori elettrici, di più di 2000 candele ognuno, i quali producono una luce uguagliante quella del giorno. Nessuna differenza esiste tra le fotografie così ottenute e quelle fatte di giorno. Per Trieste è una novità, altrove, nelle capitali specialmente, da tempo la si pratica con successo”.
All’attività di Emilia Manenizza l’archivio digitale Alinari riserva uno spazio dove compaiono alcune fotografie scattate tra la fine dell’800 e i primissimi anni del nuovo secolo. Tutte hanno come soggetto donne. C’è una ragazza in sella a una bicicletta che all’epoca rappresentava un elemento di liberazione, di rottura con le regole imperanti in quella società. In altre foto sono riprese quasi in opposizione con la “ciclista” due gruppi di sartine e ricamatrici mentre stanno lavorando chine sul tavolo. In altre immagini pubblicate nell’archivio Alinari compaiono due gruppi scolastici entrambi ripresi da Emilia Manenizza: il primo è dedicato alle ragazze del Liceo femminile, l’altra a una classe di ragazzine. Questo si legge nelle didascalie che accompagnano le foto e forniscono anche notizie biografiche sulla protagonista di questa storia al femminile. La fotografa era nata a Venezia nel 1853 e presto assieme al padre Spiridione e al fratello Marco si era trasferita a Trieste dove nel 1871 tutta la famiglia gestisce in via Santi Martiri 3, lo studio che fu di Gianbattista Rottmeyer. Poi arriva il trasferimento in piazza della Borsa in un atelier posto al quarto piano dello stabile contrassegnato dal numero 11 e la separazione dell’attività da quella del fratello. All’inizio del nuovo secolo entra nello stesso atelier come collaboratore Francesco Penco, reduce da un’esperienza fotografica e da un matrimonio americani finiti male. La moglie muore, lui rientra a Trieste e mette a frutto ciò che ha imparato oltreoceano. Il quotidiano “L’Indipendente” nell’articolo dedicato alla illuminazione elettrica dello studio Manenizza, spiega che proprio Francesco Penco “ha ideato e costruito da sé gli apparecchi necessari a fotografare anche al buio”.
Ma non basta. Nel 1904 il fotografo rientrato dall’America sposa Emilia Manenizza nella chiesa di San Maria Maggiore. Lui è nato nel 1871 e ha 33 anni, lei di anni ne ha 51, un’età da accudire i nipoti, non da sposina. Il matrimonio sarà breve, brevissimo. Nel 1905 Emilia muore e lo studio diventa di proprietà di Francesco Penco. Nessuno può affermare o negare se si sia trattato di amore o di qualcosa d’altro: certo è che Penco si impegna gravosamente col Comune per costruire una tomba di pregio alla moglie. Un gesto di tenerezza e riconoscimento perché pagherà la costruzione a rate, corona su corona, come si legge in un documento emerso dall’archivio municipale. —
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