Le camicie nere di Giuseppe Berto rimettono in luce la memoria dei vinti

Le condizioni politiche e culturali dell'Italia del secondo dopoguerra hanno costituito, comprensibilmente, un ostacolo spesso insuperabile per legittimare il racconto dei sentimenti, delle motivazioni e delle esperienze di chi aveva combattuto tra le file degli sconfitti, vale a dire dalla parte sbagliata (sbagliata in tutti i sensi). Ciò ha determinato una certa rimozione dell'“altra” memoria: quella dei fascisti e dei reduci di Salò. Eppure, al di là delle considerazioni ideologiche, nel panorama italiano non mancano, in questo settore del campo, opere di notevole qualità letteraria, tanto da essere apprezzate anche da alcuni intellettuali saldamente collocati a sinistra. Pensiamo a libri come “Gioventù che muore” (1949) di Giovanni Comisso, “Tiro al piccione” (1953) di Giose Rimanelli, fino “A cercar la bella morte” di Carlo Mazzantini (pubblicato soltanto nel 1986).
Tra queste opere possiamo senz'altro annoverare un libro di Giuseppe Berto (1914-1978), “Guerra in camicia nera”, ora riproposto da Neri Pozza (a cura di Domenico Scarpa, pagg. 286, euro 17). In una lettera del 1954 a Italo Calvino, Natalia Ginzburg ne sollecitava la pubblicazione presso Einaudi, scrivendo tra le altre queste parole: «A me piace molto. È sotto forma di diario e succede in Africa. si capisce bene cos'è stata la guerra in Africa, cos'è una guerra persa, si capisce persino cos'era il fascismo». Il romanzo uscì l'anno dopo, ma da Garzanti, non da Einaudi: perché il giudizio della Ginzburg era certamente minoritario. Berto rielabora in quest'opera i fatti relativi alla propria partecipazione alla Seconda guerra mondiale negli anni 1942-1943, come combattente volontario del sesto Battaglione Camicie Nere Africa Settentrionale. Dopo El Alamein e la rovinosa battaglia di El Hamma in Tunisia, si era unito al decimo Battaglione Camicie Nere «M», con il quale aveva trascorso gli ultimi giorni della guerra in Africa, fino alla cattura, avvenuta il 13 maggio 1943. Scriveva Berto in una nota introduttiva alla prima edizione: «Se pubblico questa cronaca di guerra a oltre dieci anni di distanza dagli avvenimenti che vi sono raccontati, è perché ho fiducia che si tratti di un lavoro semplice ed onesto, e Dio solo sa quanto ce ne sia bisogno. Credo che finora nessuno abbia scritto sulla guerra, e in particolare sulle camicie nere, sia per difenderle che per offenderle, cose libere da quell'accanimento con cui abbiamo combattuto gli uni contro gli altri, e soprattutto libere dalla retorica, la quale, essendo il più costante dei nostri difetti, pare debba passare in eredità da una generazione all'altra». È proprio tramite l'ironia e l'umorismo che Berto smonta la retorica del fascismo (credere, obbedire, combattere...), denunciandone, pur senza esibire di farlo, tutta la faziosità, l'illiberalità e la violenza. Una lettrice sagace come Natalia Ginzburg l'aveva capito facilmente. —
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