Le mille lingue del mondo tengono insieme l’umanità anche nell’ambiguità

la recensione
Ascoltare la radio con la testa immersa in una Jacuzzi. Dicono che dev’essere più o meno così che si percepisce il suono delle parole, quando si è ancora nel grembo materno. Ma il ritmo impresso dalla voce che oltrepassa il liquido amniotico fa sì che appena nato il bambino sia già in grado di distinguere la differenza tra due lingue che hanno un ritmo diverso, come l’italiano e l’inglese. È così che, ancora prima di nascere, comincia quel lento processo che porta alla parola, e dalla parola alla lingua. Tre libri, con differenti approcci, ci ricordano che il plurilinguismo è l’elemento naturale del mondo nel quale viviamo e la ricchezza della diversità linguistica.
Federico Faloppa, nel suo “Brevi lezioni sul linguaggio” (Bollati Boringhieri, pagg. 222, euro 16) annota che le lingue parlate al mondo sono tra le sei e le settemila. Molte scompaiono e di altre, come lo jedek parlato in Malesia da meno di trecento persone di etnia semang, si scopre l’esistenza solo da poco. Lasciamo per un momento da parte Faloppa e chiediamoci se non sarebbe meglio una lingua unica, così che tutti gli esseri umani possano capirsi tra loro. Torniamo al mito di Babele. Per punire la superbia degli uomini che volevano innalzare una torre per arrivare fino al cielo, dio confuse la loro lingua. Questa lettura del mito, così come raccontata in Genesi 11, è stata storicamente prevalente. Ma, ricordava Umberto Eco, ce n’è un’altra, quella di Genesi 10, secondo la quale la moltiplicazione (e non confusione) delle lingue fu un fenomeno positivo. Questa lettura edificatoria del mito, che da Dante arriva fino a Hegel passando per gli illuministi, sancisce il valore positivo della diversità linguistica. Ogni lingua, scrive Faloppa, è un’espressione unica di un’esperienza umana nel mondo, esperienza individuale prima ancora che collettiva. Ma sbaglieremmo a considerare il linguaggio come una caratteristica specifica dell’uomo. Anche gli animali lo usano. Le api ad esempio usano la velocità e la direzione del volo per indicare luogo e distanza del cibo, ma il linguaggio umano si basa su una unità molto precisa come le parole, che possono essere combinate insieme in possibilità pressoché infinite. Proprio questa sua caratteristica rende il linguaggio ambiguo.
I suoi aspetti politicamente equivoci e semanticamente controversi vengono messi in luce da Edoardo Lombardi Vallauri, in “La lingua disonesta” (Il Mulino, pagg. 285, euro 16), un saggio in cui lo studioso si occupa delle strutture linguistiche mediante le quali la pubblicità e la propaganda perseguono i loro scopi, indipendentemente dal contenuto. Nella maggior parte dei casi tali strategie sono rappresentate da costrutti della lingua che nascondono almeno in parte quella componente del messaggio che il destinatario, se ne fosse consapevole, rifiuterebbe. Propaganda e politica fanno largo uso dei contenuti impliciti. Vallauri ha elaborato un protocollo, la cui lettura è di estremo interesse, per smascherare questi trucchetti linguistici, che non potrebbero funzionare senza il contributo fondamentale del cervello, che processa le informazioni che riceviamo e per motivi di economicità tende a dare per scontato quello che pensiamo già di sapere.
Molte lingue scompaiono con la morte dell’ultimo parlante. Il dalmatico, ad esempio, si è estinto con la morte di Antonio Udina nel 1898. Ma l’ultimo parlante in latino è davvero morto? No, dice Lorenzo Tomasin, ordinario di filologia romanza e di storia della lingua italiana, perché le lingue romanze altro non sono che il latino nella sua naturale sopravvivenza nel tempo e nello spazio. Partendo da questo assunto, in “Il caos e l’ordine” (Einaudi, pagg. 207, euro 21) Tomasin individua una delle chiavi per rendere culturalmente credibile un concetto di Europa e invita a considerare lo studio delle lingue romanze come componente fondamentale degli studi umanistici e con essi all’agenda culturale dell’Europa di oggi nel suo dialogo con il mondo. —
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