Le nuove confessioni di Giulio Montenero «A Trieste l’arte è rimasta all’Ottocento»

Il decano dei critici triestini pubblica per Battello Stampatore “Processo contro me stesso”, una raccolta di ricordi dedicata ai bambini 

l’intervista



Sembra di entrare in un quadro di Magritte, quando la sera si arriva nel villino neoclassico a Chiadino, dove abita il critico Giulio Montenero (Trieste, 1926), già direttore dal 1961 al 1989 del Museo Revoltella. Ed è in questo spazio quasi francescano, invaso da un mare di libri, che l’intellettuale vive fin da bambino, prima con un padre ingegnere che lo educò alla razionalità e poi con la moglie Rina, cui dedica il suo ultimo libro, “Processo contro me stesso. Quattro testimonianze” (Battello Stampatore, pagg. 138, euro 16). Fa seguito all’intensa autobiografia “Parlandone da amico” ed è un amarcord sincero, poetico, sobriamente colto e a suo modo originale, che rievoca una lunga vita d’intellettuale e un passato di realtà cittadine – quelle di Trieste e di un paese del Vicentino dove insegnò alle elementari per cinque anni – e di abitudini di vita lontane, come quando qui si aprivano ancora il Ponte Verde e il Ponte Rosso per far passare i velieri e lo stabilimento balneare più trendy era l’Ausonia…

Una grafica sobria ed elegante e un’efficace immagine in copertina, firmata dall’amico Ugo Pierri, che vi ritrae il decano dei critici d’arte triestini. Quattro capitoli scandiscono esperienze e riflessioni personali, politiche, storiche e sociologiche. E se nella prima parte compaiono una Trieste e un’Istria d’antan e una visione del Veneto attraenti per i giovani che non hanno conosciuto quelle atmosfere e per i lettori più agèe che s’inteneriranno al ricordo, anche negli altri tre capitoli Montenero si rivela narratore sottile ed efficace, autore di un lessico moderno, che non perdona se stesso, aprendosi in un’autocritica lucida, severa, spesso ironica, che rende il personaggio umanissimo, bisognoso d’affetto e di conferme.

Uomo delle nostre terre, di madre di Cherso e padre triestino, si ritiene mitteleuropeo?

«No, mi sento italiano, anzi ce l’ho con i mitteleuropei, il mio modello è Saba perché era un nazionalista».

La casa in cui abita è stata costruita nel 1829…

«Sì, da uno dei capomastri dell’epoca, al tempo anche architetti, poi nel 1839 la ingrandì Agostino Maria Rusca e nel 1911 l’ingegner Ado Rugliano (nato Ruglianovich, Fiume 1888 – Trieste 1956, ndr) decorò il soffitto dell’atrio, pavimentato con un bel mosaico terrazzato alla palladiana, con un dipinto a tempera di finissima fattura eclettica e rialzò l’edificio di un piano: in origine era una casa colonica, l’unica che si stagliasse allora a Chiadino, assecondando l’orizzontalità dei pastini fra orti, prati, vigne e boschi, come si vede nelle stampe dell’800».

Qual è la genesi del libro?

«L’idea mi è venuta perché mia nuora, Elisabetta Kostoris, insegnante elementare, raccontava sempre ai bambini di questa casa. E così nel volume mi rivolgo a loro. Ho cinque libri inediti e tramite Pierri li ho proposti a Battello, che ha scelto questo. I motivi della pubblicazione sono il fatto che ho fisico e carattere un po’ infantili e ho avuto un’educazione repressiva e terrorizzante, che mi hanno reso disarmato nella vita e per difendermi ho accentuato i miei difetti. Che vengono qui confessati assieme ai miei errori per giustificarmi di fronte ai figli e al nipote, consegnando un’immagine autentica di me e motivando le derisioni del buffo aspetto e del comportamento da timido imbarazzato, da me subite, che hanno pregiudicato la credibilità di un convinto e faticatissimo operato».

E poi c’è la sua battaglia per la storia.

«La conduco fin da adolescente: la maggior parte del danno che Trieste ha subito e sta subendo è dovuto a una storia falsificata, fatta di rivendicazioni di esuli, ebrei, slavi e via dicendo e dal concetto d’italianità della città. Secondo me Trieste è stata invece giocata dalle cancellerie internazionali. Come scriveva nel 1912 Angelo Vivante nell’“Irredentismo adriatico”, il suo destino è quello di porto internazionale e deve certo difendere la sua italianità, però il problema è l’economia, legata alla funzione del porto. Perciò questo mio libro vuole anche incitare Trieste a guardare la propria storia con obiettività».

Nonostante la timidezza, ha guidato per anni il Revoltella.

«Lo devo a Mascherini: fin da piccolo mi sono occupato di arte e quando avevo 14 anni, cercando qualcuno che m’insegnasse il disegno, incontrai Nino Perizi, che m’incoraggiò. Poi, cronista e critico d’arte al Giornale di Vicenza, mi si avvicinò alla Biennale di Venezia Marcello Mascherini, invitandomi ad assumere la direzione del Museo, per cui vinsi il concorso».

Il libro è dedicato a sua moglie, incontrata in Val Resia nel ’51: un lungo rapporto felice, qual è il segreto?

«Ci siamo voluti tanto bene, la presenza della donna è importante per me e mia moglie condivideva le posizioni del padre, uomo eccezionale, libertario per eccellenza, che scelse di andare a fare il farmacista a Resia, cui nessuno ambiva».

Ha mantenuto rapporti con gli artisti di Trieste?

«Sì, ma il mondo è cambiato e qui vivono come alla fine dell’800: era una città cosmopolita – pensiamo ai pittori che ha avuto come Timmel e Nathan – ma oggi è estranea alla propria storia e alla propria arte perché è rimasta indietro, coltiva artisti e miti ormai fuori dalla storia». Lei ha 95 anni, qual è la ricetta per arrivare così bene a quest’età?

«Lasciarsi sempre un lavoro per il futuro, così rimane qualcosa da fare ancora». —

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